venerdì, maggio 13, 2011

la debacle di Damocle

Se indossate un orologio, un bracciale, un gioiello, un qualcosa e siete intenzionati a continuare a leggere, vi prego di togliere tutto.

Vi parlo come se parlassi a me, ed io non ne porto. L'immedesimazione non sarebbe altrettanto efficace.

Quando è primavera mi sembra assurdo che ci sia stato l'inverno. Mi sembra impossibile che esista e anzi, dubito che sia esistito.

Poi mi tolgo le cuffie e mi concentro sul disgelo. Immaginatevi stesi a letto. Non nel silenzio, in un ambiente che non è tranquillo e non invita alla riflessione. Intorno a voi, al di là della finestra chiusa, della porta che dà su scale con luce temporizzata, nel bidone della rumenta e negli interstizi delle piastrelle sta nascendo la vita.

Si sparge affamata, come un ferito che cerca l'acqua, un assetato che smania per il soccorso, và dove non è ben accetta e portando con sé solo se stessa.
Allontanatevene.
Dal letto dove siamo distesi possiamo alzarci, ma non è che con l'immaginazione che vogliamo muoverci. Andiamo fuori in strada.

Come non è difficile immaginare una cosa semplice come essere stesi a letto non vi sarà difficile uscire di casa, come se lo faceste davvero, con la mente. Solo non dovete aprire le porte, o almeno non siete tenuti a farlo. L'immaginazione fa quello che vuole, ed io per esempio cerco di immaginare nel modo più fedele alla realtà. Apro la porta e scendo le scale.

Siamo in strada, presumibilmente sotto i piedi abbiamo delle scarpe, quindi possiamo immaginare tutti quanti di sentire contro le piante la medesima cosa: una suola.
Questo per sottolineare come le catene che ci costringono negli automatismi siano in realtà le stesse per tutti, ma lasciamo perdere le suole.

A questo punto, l'immagine comincia a vacillare. Dove andremo adesso, dovendo immaginare tutto quello che ci circonda? Non lontano. Troppi eventi per calcolare una realtà realistica, troppi ricordi da concordare per formare un'immagine veritiera della via in cui tratto tratto ci troveremo. Un tamarro che passa in motorino, se lo immagino con le scarpe viola poi non gliele potrò cambiare. E se immagino una merda di cane dovrò poi cercare di evitarla.

Facciamo attenzione a quello che immaginiamo, piuttosto non complichiamo le cose. Siamo in strada, c'è un meteo amichevole che non ha bisogno di essere studiato per essere percepito, guardiamo fissi davanti a noi.
Ora, è il momento di immergersi.

Viaggiare sopra la terra, anche volando, non sarebbe possibile per i motivi elencati. Non per arrivare concentrati dove vogliamo. Finiremmo per perdere il filo o per perderci in qualche cesellatura troppo raffinata della realtà che cerchiamo di ricreare.
Immergiamoci.
Nel marciapiede, nell'asfalto, nella terra. Superiamo le varie gettate, la ghiaia, la terra battuta, le tubazioni. Siamo arrivati ormai al collo, al naso, alle ciglia.

Ora siamo al buio. Possiamo viaggiare finalmente all'oscuro del luogo in cui ci troviamo. Se temete di incappare in qualche cantina, in un bunker, scendete ancora: è uguale.
Siamo come animali, come struzzi con la coscienza annegata in un palmo di terra, se non vediamo è perché non abbiamo intenzione di vedere.

Ma ora è il momento di partire, viaggiare verso il luogo della nostra riflessione. Propagate il moto, sentitelo, camminate o fatevi spingere dalle montagne russe, l'importante è il senso di moto, stiamo andando in un luogo piuttosto lontano.

[...]

Siamo arrivati. Intorno a noi tutto è ancora buio, sentiamo soltanto di esserci fermati.
Comincia la risalita, veloce o istantanea non importa, sorgiamo verticalmente come ascensori intangibili. Non aprite gli occhi, per quanto ne sappiamo siamo ancora annegati in kilometri di pietra, oppure potremmo aver già superato la stratosfera. Ma questo non ci interessa, tanto più che non possiamo saperlo: ad occhi chiusi percepiremmo anche la luce del sole, ma non sono i nostri occhi ad essere chiusi. Non è il buio delle palpebre quello che osserviamo.

Anzi, che non osservo più.
Apro gli occhi: sono ad alta quota, con i piedi immersi in qualche particolarissima, percepibile suola, ma il mio sguardo non può volgersi a vedere cosa indosso, non può muoversi affatto.

Guardo la montagna di fronte a me, non posso fare altro.
Un grande sole giallo la illumina, a picco sopra di lei, da qualche parte dove non posso vederlo.
La avvolge come le lampade irradiano i fiori di serra, disperatamente intenzionato a farla sbocciare, prima o poi.

Ma guardando meglio mi accorgo che la roccia non è immobile: il ghiaccio che la ricopre un pò la fa sudare e un pò la ammanta di fumo.

L'inverno non è propriamente finito: arriva il disgelo.

2 commenti:

Baro ha detto...

ho esagerato

Rodrizio ha detto...

Un po di sincerità in fondo a ogni post