lunedì, gennaio 10, 2011

I carotaggi (prima parte)

Non c'è silenzio, almeno non il silenzio che ci si potrebbe aspettare.
La situazione è tutto meno che solenne: vengono sopratutto in mente le poste.

Tre poltrone separate da spesse pareti di cotone sembravano contenere altrettante persone. Un osservatore che si fosse interessato a tanto piccola situazione avrebbe, forse, facendo molta attenzione, intuito quanto segue.

La storia di A

Non ricorderò cosa stavo facendo prima di venire qui, ma perbacco se non ricordo certe altre cose.
Fui ricoverato in attesa di un intervento in seguito ad una caduta in moto. Ne ebbi per dei mesi, stampelle, fisioterapia e tutto il resto. Insomma, non ero tanto dolorante quanto spaventato, e triste. Il mutuo da pagare, la vicenda dei permessi revocati, il matrimonio di mia figlia, insomma c'erano un sacco di cose a gravare sulle mie spalle. Anzi, il matrimonio di mia figlia no, quello fu dopo: faccio confusione.

Ero giovane infatti, appena sposato...credo. Un incidente era proprio quello che non ci voleva. Ma mi misero in stanza con un ragazzo. Più giovane di me, ricoverato per una cosa simile alla mia. Aveva sempre gli occhi velati dalle lacrime, ma non piangeva mai. Tuttavia si vedeva che faceva una gran fatica a trattenersi: a volte gli tremava la voce e poi non si girava mai.

I nostri letti erano vicini, ma parlavamo tra noi senza guardarci, il suo tenere lo sguardo fisso contro il muro mi aveva convinto a fare altrettanto.
Nonostante tutta la paura che traspariva le sue parole andavano altrove: tutte le volte che saltava fuori il motivo della sua degenza cercava pateticamente di sminuirlo. Io non facevo che lamentarmi e scusarmi.

Una notte cominciai a parlargli dei miei problemi senza preamboli. A voce alta, come continuando un discorso semplicemente interrotto. Il giorno dopo diedi la colpa ai sedativi, ma lì per lì sapevo che avevo bisogno di parlare. E lui per tutta la notte mi tenne compagnia, rispondendo in un modo ragionevole che mi parve sinceramente interessato.

I suoi parenti erano brave persone, felici, mi fecero tanti auguri di pronta guarigione.
Non ricordo il giorno in cui operarono me, ma non posso dimenticare quello in cui operarono lui.
Si trattava di un'intervento di routine ma per quanto banale in quel momento eravamo noi gli operati, eravamo noi gli eroi. In quei giorni di malattia, di stasi, di sofferta attesa, l'operazione era la cosa più importante di tutte e lui, mentre lo portavano via mi guardò con quegli occhi velati e mi strinse la mano con un cinque: forza, mi disse. E basta.

Cos'era quello? Quel ragazzo? C'era del coraggio, eppure che senso aveva mostrarlo in quella situazione, in quel modo? A chi giovava?
A me, le sue lacrime non versate erano servite a me.

1 commento:

tonino carotone ha detto...

Route 66 in Harley