domenica, ottobre 11, 2020

Risorse inumane

Ora che sono all'inferno, racconterò le cose come sono andate.

Una mattina arrivai a lavoro e mi dissero che ero morto. Il tizio del personale mi prese per un braccio e mi portò in una sala riunioni. Chiesi di poter parlare con il mio capo e mi rispose che non c'era, doveva ancora arrivare per qualche stupido motivo che non ricordava. In ogni caso, anche se me lo avesse detto, non potrei ricordarlo ora. Ma c'era qualcosa di più importante di cui parlare: la gente moriva. Sai che novità. La sua assistente mi chiese se volessi del caffè e lui la guardò allibito, come se il caffè fosse ormai estinto da secoli. Forse lo avrebbe voluto lui, visto che continuava a deglutire con molta fatica.

Sembrava il discorso tra due adolescenti che si lasciano, ma l'uomo delle risorse umane ci teneva molto a farmi capire che una di quelle risorse fossi proprio io e che non mi avrebbero di certo lasciato al mio destino, avevo pur sempre una famiglia da mantenere e la colpa era loro, non mia. Solo che non dovevo presentarmi al lavoro, né di persona né da remoto. Dovevo sparire, fino a quando non si sarebbe chiarito "che cosa fare" con "noi". Cercò di tranquillizzarmi, anche se ero tranquillissimo, perché si trattava di un loro problema, non mio, e su questo punto era molto sicuro. Pareva fosse una malattia, una malattia curiosamente di entrambi, vivi e morti: la gente non riusciva più a morire, se gli altri non capivano che fossero morti.

Per cercare di spiegarmi meglio vi racconterò di un fatto che, nei giorni seguenti, sconvolse particolarmente l'opinione pubblica: c'era una nota presentatrice che tutte le mattine ospitava una rubrica del buongiorno, bevendo il caffè. Ascolti incredibili, ogni mattina da vent'anni. Eppure, un giorno come un'altro in quelle prime settimane di sommesso stupore mondiale, lei stessa diede la linea al telegiornale per una notizia sconvolgente: era stata recuperata la lista dei passeggeri di un volo privato, precipitato tra le montagne qualche giorno prima. Misteriosamente, doveva esserci stata anche lei a bordo: la scatola nera lo confermava. Fu così che, improvvisamente, milioni di telespettatori si accorsero che la figura che ascoltava contrita quella notizia insieme a loro, relegata in un riquadrino in alto a destra nell'attesa di riavere la linea, non era la donna con cui avevano condiviso i primi minuti della giornata durante gli ultimi vent'anni, ma il suo cadavere.

Non era più la plastica delle sue labbra rifatte a baciare il bordo di quella tazza color tortora con scritto "Bonjour anche a te :) ", ma un informe ammasso di sangue rappreso e cenere. Dopo lo schianto, doveva essere semplicemente ritornata a valle, trascinandosi fino al primo taxi che l'aveva riportata a casa come se niente fosse successo. Fu il terrore generale, ma la cosa più straordinaria è che la notizia fu passata di bocca in bocca e commentata indiscriminatamente tra i vivi ed i morti, ignari della presenza di questi ultimi.

La fine della storia della povera conduttrice è che crollò a terra, stavolta morta per davvero, nel momento in cui il giornalista le restituì, perplesso, la linea: non era rimasto nessuno a credere che fosse viva e l'effetto della magia, bianca od oscura che fosse, svanì senza più darle la possibilità di andare in giro a farsi i fatti suoi.

Quando tornai a casa, dopo la chiacchierata con le risorse umane, avevo tre messaggi in segreteria. Il primo era di mia moglie: sapeva che ero morto ma non riusciva ancora ad elaborare...il lutto o come si chiamasse. Non aveva nessuna intenzione di vedermi, ma c'erano dei wurstel a scongelare nel lavandino, se li volevo. Altrimenti avrei dovuto buttarli, perché tanto erano scaduti. Mi guardai riflesso nello specchio notando solo in quel momento che la mia gola era squarciata. Strano che non ricordassi come fossi morto: forse faceva parte di quell'incantesimo.

Il secondo messaggio era del mio capo. Disse che aveva saputo della mia morte, e anche della sua. Apparentemente era successo mentre andavamo insieme al lavoro: un'incidente d'auto. Questo almeno spiegava perché quella mattina non avessi trovato da nessuna parte le chiavi della macchina. Guardai Pitagora, il mio cane, chiedendogli scusa con gli occhi per avergli dato la colpa di averle trafugate. Il messaggio del capo si concludeva augurandosi di poter superare questa storia aiutandoci a vicenda, continuando a considerarci ancora vivi l'un l'altro. Infine, poco prima di sforare il tempo concesso dalla segreteria, mi chiese se volessimo andare a cena da loro, mercoledì.

Il terzo messaggio era della moglie del mio capo. Mi disse che era morto, sul serio, poco dopo avermi chiamato. Forse aveva smesso di considerarsi un'essere vivente ed aveva lasciato questo mondo. Chissà cosa ne era di me. Non sapeva come fare in un mondo così e le sarebbe piaciuto parlarne, ma non aveva il coraggio di vedermi. Stava piangendo e meditava di farla finita. Magari lo aveva già fatto e ancora non lo sapeva. Concluse dicendo che avrebbe voluto ricordarmi da vivo, ma proprio non ci riusciva.

Lasciai i wurstel al loro destino e decisi di andarmene a dormire. Una buona notte di sonno mi aveva sempre schiarito le idee, vivo o morto che fossi. Mi misi il pigiama ed andai a lavarmi i denti. Fu una vera sorpresa non trovarli più tutti. Molti avevano posizioni nuove, impensabili, per cui faticai un po' a lavarli e rinunciai perfino a passarmi il filo interdentale. Sarebbero dovuti nascere un sacco di prodotti per i morti e i loro bisogni, valeva la pena pensarci. Decisi che il mattino dopo avrei controllato se "Abra Cadaver" fosse un marchio registrato, avrei potuto mettere in piedi un business per colluttori da corpi in decomposizione, anche se forse, nel mio caso specifico, l'alito mi era sempre puzzato.

Sdraiato sul letto, prima di addormentarmi, ripensai a tutte le persone della mia vita: erano cinque e tutte ormai dovevano sapere che fossi morto. Come mai non riuscivo ad andarmene? Pitagora ululò, ammirando la luna fare capolino tra le nubi.

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