venerdì, ottobre 11, 2019

Glory whole

Eravamo ormai delle vecchie baldracche.
Come fossimo diventate baldracche lo sapevamo: qualcosa, al termine della nostra pubertà, era scattato in modo repentino e attento, come qualcuno che apre una porta cigolante di botto, sapendo che così farà meno rumore.
Come fossimo diventate vecchie restava ancora un mistero.
Le cose si erano sicuramente complicate negli interminabili viaggi. Il sonno rubato a spizzichi e bocconi tra un terminal e l'altro, sballottate solo con un po' più di grazia delle nostre valige, su e giù per la grande giostra volante. Il sole sorgeva e se ne andava semplicemente quando ce n'era bisogno, senza essere più collegato ad un orario o a un quadrante. Qualche furbacchione cercava sempre di riportare le cose ad un riferimento certo, con scarso risultato. Il caro vecchio meridiano di Greenwich poteva anche andare a farsi fottere.
Ecco, l'altra cosa furono le parolacce. Fino alle soglie dell'età adulta, prima che tutto cominciasse a ripetersi ritornandoci in gola come un minestrone acido e mai davvero digerito, l'uso delle parolacce era sempre stato misurato e attento. Esse si stagliavano nel percorso dell'innocenza come epiche pietre miliari, fari che permettevano di misurare le distanze e quindi il tempo. Quella volta che la suora era scivolata e lo aveva detto, quella volta che tirammo un petardo tra le gambe di un passante e disse la stessa sei volte di fila, quella volta che l'allenatore ci prese da parte per dirci tutte quelle che aveva dovuto trattenere durante la partita. Da un certo punto in avanti però, era tutto diventato un cazzo, stronzo, fica, bucodiculo, puttana, merda, troia e poi ancora cazzo e cazzo e cazzo, all'infinito.
Forse avevamo fatto male, da giovani, a prendere questi elementi come metri per il passare del tempo, ma cosa potevamo saperne?


Mi accorgo del passare delle stagioni attraverso i piedi. Per questo motivo, a causa delle calze, l'inverno mi sembra interminabilmente lungo. Quando vedo uno schermo altrui ho subito lo stimolo di guardare, sbirciando: capire senza dover sapere. O viceversa, comunque è il vizio di una vita intera.

Ascoltando Dvorak aveva sempre l'impressione che il mondo dovesse finire da un momento all'altro.
In effetti, ascoltava sempre e soltanto la nona sinfonia: "Dal Nuovo Mondo".
Era rimasto estasiato nell'apprendere la nozione, innestata per sempre nella sua memoria anni prima durante la lettura di un qualche numero primo della Settimana Enigmistica, attraverso quel meccanismo perfetto e arcano del "Forse Non Tutti Sanno Che...", che Neil Armstrong portasse con sé proprio quell'opera durante la missione Apollo 11. Benché ascoltasse anche altro, di altri musicisti e di Dvorak stesso, nulla pareva emozionarlo e coinvolgerlo allo stesso modo.
Ascoltando Dvorak aveva sempre l'impressione che il mondo nuovo non fosse semplicemente una manifestazione rinnovata di questo ma proprio un Nuovo Mondo che, sconquassando e distruggendo, irrompesse in una bella giornata di sole per cancellare tutto ed imporre su ogni cosa la propria identità. Un giorno mi disse che facendo attenzione si potevano perfino sentire le colonne del mondo sgretolarsi sotto l'impeto di quel tetro avvicendamento.
A me sembrava solo il suono dello strisciare della puntina sul disco, ma per lui non faceva differenza. Cercavo invano di distrarlo con ogni mezzo: puntualmente, proponevo un nuovo ascolto delle danze slave per dare una prospettiva più rosea, o almeno meno statica, alla sua visione. Inutile. Perfino le teorie complottiste, un classico delle menti geniali tenute troppo a digiuno, non riuscivano a scalfire quel presagio mistico che lo richiamava a sé, ascolto dopo ascolto. Forse non tutti sanno che un certo August Dvorak, lontano parente del celebre compositore che aveva combattuto contro Pancho Villa, viene tutt'oggi ricordato per aver creato una tastiera speciale che...non importa.
Anni dopo, ormai distanti nel tempo e nello spazio, ebbi come un'illuminazione: la gloria era ciò che lo aveva fulminato. La gloria, tutta intera, tutta in una botta unica, lo aveva circondato e annientato.
Gloria, sostantivo femminile: onore universalmente riconosciuto e tributato nei confronti di un valore assolutamente eccezionale.
La nona sinfonia per lui era la quintessenza della gloria o, meglio, la gloria gloriosa. Il trionfo del trionfo, l'orgasmo al quadrato. Non aveva altro modo per spiegarsi questo cortocircuito sensoriale se non descrivendolo come la fine del mondo.

In un certo senso, il mondo era davvero finito. Tra le porche troie e tutte le altre parolacce sibilate contro un destino molto più ignoto che crudele, il tempo era passato ed il mondo nuovo si era sostituito al vecchio. Si potrebbe dire che era stata una rivoluzione pacifica, quasi desiderata. Come una porta cigolante aperta di scatto per fare meno rumore.
Ogni tanto provavo ancora a riascoltare l'attacco delle danze slave per vedere se riuscivano a farmi rivivere quella sensazione. L'euforia di essere euforici, l'eccitazione dell'eccitamento, la gloria tutta intera. Niente, dovevo averla consumata, proprio come avevo consumato la sorgente di nostalgia che zampillava dalla suite per violoncello di Bach. Avevo come un lontano ricordo di aver già consumato e ricaricato quella sensazione altre volte, ma non riuscivo più a mettere in ordine gli eventi ed il senso con cui si erano svolti. Forse ero ancora un feto la prima volta che la musica aveva perso la possibilità di trasmettermi quella sensazione per la prima volta. Magari iniziavo a strutturare dei ricordi giusto nel momento in cui la vena si era esaurita di nuovo e via così, all'infinito, distillando la sensazione della ricerca della sensazione.
Doveva necessariamente esserci un modo per leggere quelle maree, una rappresentazione cartografica dei modi di vibrare dell'animo quando viene sollecitato da un'aria sulla terza corda. Deve esistere. La rappresentazione cubista delle frequenze che descrivono l'anima attraverso le sensazioni che essa stessa prova, esprime ed è.

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