giovedì, ottobre 10, 2013

Il tempo delle chele (tit for tat)


In mancanza di vere mancanze, aveva scelto di mancare del senso dell'umorismo.
Aspirando a vere aspirazioni, aspirava a non averne e ad essere pertanto una persona libera.

L'uso della lingua italiana lo affliggeva, lo tormentava. Una volta, la professoressa di lettere del suo secondo anno alle scuole medie parificate Salvo Montalbano, gli aveva chiesto di spiegare il significato del suo tema.
Lui lo aveva preso e lo aveva letto a voce alta, a tutta la classe. Era stata una grande umiliazione. Il tema parlava di un ragazzo della sua età, iscritto al secondo anno delle scuole medie all'istituto Indro Montanelli, un nome di fantasia la cui musicalità aveva già suscitato qualche sussulto nell'uditorio. Mai sentito nome inventato più sciocco.

Andando avanti, il tema si perdeva in una lunga digressione per spiegare come mai e per quali ragioni storico-sociali le scuole medie dovessero durare tre anni, quando nella realtà tutti sapevano che gli anni erano sempre stati cinque. Lo avevano anche studiato la settimana precedente, il perché di quei cinque anni: lo aveva voluto Garibaldi stesso, consigliato dal suo amico Ulysses S. Grant, con cui aveva combattuto nelle Prime Guerre Mercuriane.

Era tutto così, quel tema: farcito di inutili differenze. A volte anche macroscopiche, ma mai stravolgenti. Un tema che sapeva di niente.
Questo gli disse la sua compagna di banco, quando tornò a posto: non era scritto male, ma quel tema sapeva di niente.
Lui sospirò, tutto sommato meno imbarazzato del previsto, pensando che se avesse scritto tutto quello che aveva in mente, allora sì che avrebbe detto qualcosa che non sarebbe stato niente. Aveva immaginato un popolo con arti superiori che terminavano in cinque dita prensili, invece che con il classico, scontato e poco fantascientifico, paio di chele.

Ritornando a casa con il vecchio traslatore sferragliante, ragionò ancora sulle modifiche che il mondo avrebbe dovuto subire per diventare quello del suo racconto. Piccoli mutamenti sarebbero dovuti avvicendarsi nel tempo, contrapponendo il vecchio al nuovo. Il nuovo sarebbe stato giustificato soltanto dalla sua esistenza, che l'esistenza stessa del vecchio avrebbe provocato.

Ogni cosa, pensò, avrebbe dovuto avere una ripercussione, un'effetto sul mondo, per poter mutare. Eppure, il cambiamento era una cosa molto rara. Che cosa castrava quelle ripercussioni? Esse non si infrangevano contro aridi ed alteri scogli: nemmeno avevano modo di nascere. Forse, perché esistessero e quindi fossero visibili, bisognava prima conoscere le cose. Descriverle, definirle, fotografarle nell'attimo in cui erano, per accorgersi del cambiamento. Arrivato alla fermata fece scattare le chele, nell'alzarsi: un pensiero lo aveva folgorato.

Nessuno aveva mai saputo spiegare l'amore, nemmeno i poeti più capaci di tutte le terre conglomerate. L'amore, quello che faceva tremare le chele, che faceva volare nello stomaco i lepidotteri enzimatici e che dilatava le cinque pupille persino durante gli oscuramenti ferrosi, era stato soltanto descritto come indescrivibile.

E allora sarebbe stato quello, l'unico cambiamento possibile dell'Amore, quello con la A maiuscola: un giorno, forse non troppo lontano, qualcuno si sarebbe accorto della descrivibilità dell'amore, e ne avrebbe modificato la natura. Fino a quel giorno, tutto sarebbe continuato, modificandosi in modi invisibili mentre le coscienze guardavano altrove, per poi ritornare al suo posto, appena osservato.

Guardò la statua di carne del Napoleone Alato e sentì come un tuffo al cuore: gli eroi del mondo avrebbero potuto guidare le coscienze anche nella pubblica realtà, o solamente nelle strade private dell'animo?

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