lunedì, dicembre 30, 2019

Gangblend

Petroni aveva la bocca impastata, per cui decise di bere un bicchiere d'acqua prima di andare ad aprire la porta.
Non aspettava visite.
Quel trillo prolungato, udito così raramente, gli ricordò non solo di possedere un campanello ma di avere anche una casa e di averci vissuto da più di quattro anni.
Magari era uno dei suoi figli. Non erano mai stati in quella casa; almeno, non fisicamente. Solo le loro voci e le loro immagini, per gentile concessione dell'onnipresente tecnologia, avevano abitato quegli ambienti insieme a lui.
I loro corpi non sarebbero mai potuti stare tutti insieme, in quella casa, come ai cosiddetti "vecchi tempi". Sarebbero in realtà dovuti essere "bei vecchi tempi", ma Petroni era uno che trattava i ricordi con troppo rispetto per lasciare che si edulcolorassero col passare del tempo. Non sarebbe stato possibile radunare sotto quel tetto tutti i suoi figli e le loro famiglie nemmeno se le sue tre ex mogli si fossero state simpatiche. Eppure, c'era stato un tempo in cui la sua casa era stata grande, con molte stanze ampie e abitate, perfino traboccanti di vita. Poi, con il tempismo proprio dell'Algoritmo, i suoi figli erano volati via verso i loro incarichi e lui, proprio come loro, aveva seguito ancora una volta strade nuove.

Petroni pensava che il mutare dei suoi spazi avesse sempre seguito un andamento estremamente naturale. Nei suoi ragionamenti prima del dormiveglia, si vedeva come un airone appoggiato al ramo di un grande albero. L'airone, per distrarsi dal freddo del solstizio d'inverno, ripensava ai suoi nidi passati, riuscendo quasi a vederli e a risentirne il calore sotto le piume. Quando Petroni si addormentava il ragionamento diventava sogno, facendo volare l'airone in cerchi sempre più grandi.

Un cartello vicino alla porta recitava: "tutto accade attraverso l'Algoritmo".
Non si trattava davvero di un cartello, ma della foto di una scritta su un muro assolato che Petroni aveva scattato tanti anni prima.
Non era nemmeno quella la scritta: sul muro c'era un ideogramma il cui significato era stato tradotto da una bella ragazza che faceva loro da guida, quel giorno. Petroni ne era rimasto molto affascinato e spesso ripensava a quella mattina: il sapore dei datteri, in particolare, sembrava non volerlo lasciare.
Tutte le mattine, Petroni guardava l'ideogramma senza vederlo, leggendone solo il significato attraverso le lenti del suo ricordo: non avrebbe saputo riprodurlo nemmeno sforzando la sua memoria al massimo. Come la sua faccia al mattino, davanti allo specchio, l'ideogramma era diventato un fondale su cui distinguere, solo ogni tanto, impercettibili differenze: un capello bianco, un granello di polvere sulla cornice, una nuova ruga.


Petroni richiuse la porta alle spalle della ragazza: il colloquio si era protratto fino a tarda sera e adesso avrebbe ordinato volentieri una pizza, anche se concentrarsi sulla cucina sarebbe stata un'utile distrazione dopo tutte quelle domande. L'intervista era durata più di tre ore e lei non aveva accettato nemmeno una tazza di te.

Mi parli di Curzio, cosa può ricordare di lui? 
È per una ricerca. 
Si senta libero di raccontare le cose come le vengono in mente, nell'ordine che preferisce.

Non era la prima volta che l'Algoritmo poneva questo tipo di domande attraverso ai suoi emissari e non era la prima volta che questi si rivolgevano a Petroni per cercare una risposta.
Qual'era la storia che l'Algoritmo cercava di ricostruire, o forse di raccontarsi, riguardo a Curzio? Qualsiasi fosse, doveva certo essere una storia ormai sgangherata e contorta, ridotta a brandelli dalle conferme e dalle smentite di cento altre persone che, proprio come Petroni, avevano incontrato quel giovane sulla loro strada, per non parlare delle diverse interpretazioni che quelle stesse persone avevano restituito negli anni per completare o smontare le loro storie.
Sembrava essere semplicemente un grande casino, che forse nemmeno l'Algoritmo avrebbe capito.

Petroni andò a stapparsi una birra.
La sua fede nell'Algoritmo stava forse crollando? Poteva anche essere.
Eppure, l'Algoritmo doveva aver sempre operato così, elaborando innumerevoli informazioni grossolane, contraddittorie e confuse. Storie raccontate da bocche diverse, in tempi diversi, con diverse visioni del mondo e dei suoi abitanti. C'era così tanto da scremare per poter far riemergere la Verità, ossia gli eventi che davvero si erano consumati da quando Curzio aveva preso la porta per cercare Violet, dovunque fosse finita.
L'Algoritmo doveva aver sempre operato così, nell'ombra, come un fabbro pazzo e operoso, che martellando infaticabile crea strumenti più armoniosi e perfetti tanto dei suoi martelli quanto di sé stesso. La Perfezione Iterativa, che tutto macina senza comprendere, perdonando agli eventi di essere brutti ed inutili, strangolandoli nella sua morsa senza fine per ricavarne un balsamo impossibile: l'olio della realtà.

domenica, novembre 24, 2019

Orange country

Aveva appena smesso di piovere.
Lisa guardò le lancette, senza leggerle davvero: qualsiasi ora fosse, mancava ancora troppo tempo al tramonto.
Sarebbe dovuta salire al settimo piano, intervistare la signora Tapperquach, verificare le funzionalità della casa, accertarsi del suo stato di salute ed allora, soltanto allora, avrebbe potuto girare i tacchi e tornare a casa a fare le sue cose.

Le "sue cose" di solito consistevano nel mettere qualcosa di estremamente impegnato alla televisione, per poi andarsene nel resto della casa a fare tutt'altro.
Era una cosa di cui non riusciva a vergognarsi. Perché avrebbe dovuto? Lo schermo era solo un elettrodomestico come un altro, collegato all'Algoritmo come ogni altro, che faceva la sua funzione come tutti gli altri: indipendentemente dalla presenza o meno di un pubblico per la sua esibizione.
Era felice di poter rendere orgoglioso l'Algoritmo: orgoglioso di lei, dell'elevato livello culturale della popolazione che stava così saggiamente guidando, dei valori che insieme andavano edificando, della visione beata del futuro che potevano contemplare dall'alto del loro contributo.
Lisa non credeva di essere un impostore: capiva che qualcuno avrebbe potuto travisarla per tale, ma non sentiva di esserlo. Aveva un sincero interesse per quei temi così elevati; solo non aveva voglia di occuparsene davvero.


Una notifica chiese timidamente: stai ancora ascoltando l'audiolibro "La dottrina dei costumi" di Christian Garve? 
Certo, rispose Lisa, mentre il portinaio la ragguagliava sugli ultimi spostamenti del palazzo: il figlio della signora Tapperquach continuava a non farsi vedere. "Meglio così", fu il suo candido commento.

La porta si aprì a fatica: Terence, il cincillà della signora Tapperquach, aveva fatto cadere in qualche modo l'appendiabiti proprio contro la porta. Doveva essere stato il suo ultimo gesto: Lisa lo trovò riverso poco oltre, morto.
Tappandosi il naso, chiamò a gran voce la vecchia, superando di corsa il piccolo corpo abbandonato contro il tubo freddo del radiatore.
Si levò una voce un tempo squillante, con un singolare accento straniero, come se la demenza della vecchiaia le avesse tolto, insieme alle sue facoltà, anche le proprie origini.
- Sei tu, Fanny?
Al fianco della poltrona su cui era sdraiata c'era una pila di crocchette di riso soffiato, evidentemente depositate a terra per nutrire una pantofola beige che doveva aver confuso con Terence. Lisa era disgustata.
- Mi chiamo Lisa, quante volte devo ripeterlo?
Cambiato canale ed abbassato il volume, si avvicinò alla poltrona della vecchia.
- Deve farsi una doccia signora, alla svelta. Questo posto è un disastro.
- Io...non riesco da sola.
La signora sorrise, come per scusarsi, così Lisa comprese il motivo di quello strano accento: non aveva la dentiera.
- Porca puttana, dove cazzo è finita la dentiera?
Il verbale prevedeva che venisse fatta una foto della dentiera e di altri beni di prima necessità. Aveva tutto l'occorrente nella borsa, tranne la dentiera: troppo specifica, troppo costosa. Non aveva preparato quella borsa con l'esplicito intento di frodare l'Algoritmo e la signora Tapperquach, quanto per risparmiarsi la fatica di trovare tutto quanto in quel casino e nelle altre quindici case sotto la sua responsabilità. Così, semplicemente, avrebbe fatto prima.

Lo schermo di un altro tablet si risvegliò:
Stai ancora guardando il video "Spinoza visto da Karl Marx"?
Certamente.

Corse in cucina, scavalcando pile di vestiti sporchi e scorrendo rapidamente la propria scheda di valutazione sul pad della signora Tapperquach: ottimo, ottimo, sì, assolutamente, molto d'accordo, eccellente, buono, molto buono. La lista dei meriti che Lisa si doveva attribuire era interminabile e questo la scocciava molto: aveva ancora troppo da fare prima di potersi dedicare alle sue cose.

L'orologio cercò invano di distrarla:
Stai ancora ascoltando "Dizionario filosofico, di Voltaire"?
Assolutamente.

Uno dei fornelli era acceso e c'era un uovo spiaccicato a terra, davanti al frigorifero.
Che schifo, pensò, cercando la dentiera tra le posate ammonticchiate nel ripiano sbagliato della lavastoviglie: non era nemmeno laggiù.
Dove poteva essere finita?
La lavatrice, caricata con troppo detersivo, aveva l'oblò coperto di schiuma: impossibile dire cosa ci fosse dentro senza aprirla. Spalancato lo sportello, un odore equivoco di acqua stagnante e lavanda si sparse per la cucina: da quanto tempo era stata fatta, quella lavatrice? Dentro c'era di tutto: prese un forchettone e cominciò ad estrarre i vestiti putridi, gettandoli a terra con stizza ogni volta che questi rivelavano di non nascondere la dentiera.
- Fanny? Che cosa stai facendo?
La signora Tapperquach cercò di chiamarla.
- Resti là signora. Faccio una cosa e arrivo.

Il bagno. Lisa non avrebbe voluto entrarci, ma la dentiera doveva per forza essere là. Pregò di trovarla subito nel bicchiere sotto allo specchio, ma le sue preghiere non furono ascoltate.
Si avvicinò al gabinetto tremando di rabbia: la dentiera era là, incastrata sul fondo, sommersa dal piscio dorato e dai residui marcescenti di carta igienica mista a feci.
Impugnò il forchettone tenendo l'altra mano davanti alla bocca, per impedire ai conati di prendere il sopravvento. Usando il forchettone come una pinza, bloccò la dentiera contro la ceramica, per poi tirare lo sciacquone una, due, tre, cinque volte. Prese un asciugamano ed usandolo come un guanto tirò fuori la dentiera dalla sua prigione. In tutta fretta la depositò nel bicchiere e scattò la foto richiesta, scappando finalmente dal bagno, dall'appartamento della signora Tapperquach e da quello stramaledetto palazzo.

Tanti anni prima, Lisa era stata una bambina graziosa, sensibile e attenta.
Lo era sicuramente ancora, nei riguardi di alcune entità accuratamente selezionate: sé stessa, i suoi cari, cose così.
Giunta alle soglie della vecchiaia, un dottore mandato dall'Algoritmo le annunciò che avrebbe probabilmente perso la vista. Sarebbe diventata una disabile, dipendente dagli altri, senza nessuno che la proteggesse. Lisa non avrebbe mai accettato un simile epilogo: non si sarebbe mai abbandonata alle cure disattente ed egoiste di qualche giovinastro mandato dall'Algoritmo che si sarebbe facilmente approfittato della sua condizione dandole il minimo indispensabile, ingrassando le proprie tasche ed il proprio karma con recensioni mendaci.
No: sarebbe fuggita. Avrebbe abbandonato l'Algoritmo in favore di qualche comunità che ancora desse valore alla condizione umana ed alla solidarietà tra le persone.
Una sua lontana conoscenza aveva fondato proprio una di queste comuni nel deserto.
La intrigava l'idea di vivere in un paesaggio nuovo, alieno, anche se la sua vista in rapido peggioramento non le avrebbe dato modo di ammirarlo. Da piccola, una sera, aveva sognato proprio di sorvolare un deserto: le era sembrato tale e quale ad un campo innevato tinto come d'arancio; l'unica differenza era che non nevicava.

domenica, novembre 17, 2019

Heaviest metal

Quando Curzio entrò nella stazione di servizio nessuno si girò.
Soltanto un tizio con un berretto sudicio, come rispondendo al suo ingresso, ruttò fuori tempo rispetto alla canzone che la radio stava passando.
Curzio si avvicinò al bancone ordinando uno scotch e soda, per darsi un'aria da duro: sembrò funzionare.
- Stai cercando un passaggio, amico?
L'uomo barbuto accanto a lui si girò, rivolgendogli un ghigno annoiato.
- Sì. Sì esattamente. Cerco qualcuno che mi porti fino all'Incrocio 9.
L'altro si lisciò la barba, come volendo dare ad intendere che ci stesse pensando su ma, prima che potesse rispondere, una grande figura scura si impose fra loro caracollando.
- Ma che cazzo fai? Qui se ti serve un passaggio devi chiedere di me, hai capito?
Ringhiando, pronunciò le ultime parole verso il barbuto, facendogli tremare la barba.
- Certo Mercury, sicuro. Lo avrei mandato da te, amico.
Mercury fissò Curzio con l'unico occhio buono, mentre l'orbita lattiginosa dell'altro dondolava minacciosamente come se stesse cercando qualcosa.
- E perché? Sentiamo.
- Per...perché sei il migliore del blocco D.
Mercury rise. Avrebbe avuto bisogno di schiarirsi la voce, ma non lo fece: riprese invece a parlare producendo un fastidiosissimo gorgoglio che arrivava dalle profondità della sua gola.
- Vieni al mio tavolo, ragazzino. E lascia sul bancone quella roba che hai ordinato: qui bisogna restare idratati, il deserto non perdona. Tosca, preparagli un frullato come il mio.
La barista grugnì, mentre Mercury si allontanava zoppicando con Curzio al seguito.


- E' l'Algoritmo a mandarti all'Incrocio 9?
- Veramente no, è una specie di mia iniziativa.
- Immaginavo fosse una cosa del genere. Sembri davvero uno sprovveduto.
Mercury guardò l'ora, perdendosi nei suoi ragionamenti.
- Facciamo così: ora finisci il tuo frullato e poi vatti a comprare una coperta, una buona, allo spaccio. Digli che ti mando io. Ti ho già detto che il deserto non perdona? Ne parleremo meglio in cabina. Parleremo meglio di tutto, in cabina.
Si guardò intorno con circospezione, come cercando tra gli avventori - che non erano cambiati - qualche faccia nemica da riempire di botte.
- Poi raggiungimi al carro. Il mio è quello con scritto "Mercury".
Sorrise per un momento come un bambino orgoglioso, facendo balenare gli incisivi d'oro nella penombra del locale, prima di aggiungere tronfio: ovviamente.

Era rimasta solo una coperta ma l'uomo dello spaccio disse che a Mercury sarebbe andata bene, come se Curzio non la stesse nemmeno comprando per sé. Esterno ed interno erano rivestiti da sottili placche metalliche, non più grandi di una moneta. I due lati non differivano soltanto per il colore, ma anche per l'effetto: la parte dorata serviva per trattenere il calore all'interno, mentre quella argentata lo avrebbe respinto. Le rade maglie della coperta la rendevano semirigida e pesante, come un'armatura. Curzio, ripiegandola secondo le istruzioni del negoziante, sentì di aver ricevuto un vero equipaggiamento, qualcosa che lo riportava alle gesta eroiche dei cavalieri erranti di cui aveva sentito raccontare da bambino. Fece ritorno da Mercury, trovando senza problemi il grande autoarticolato illuminato come una giostra .

- Sai ragazzino, tu mi sei simpatico.
- Grazie Mercury, anche tu mi sei simpatico.
- Molto bene. Allora ti racconterò una cosa: vedi, qui...
Fece un gesto ampio con la mano che non stava reggendo il volante, tenendo il dorso verso l'alto, come a voler toccare i profili delle colline illuminati dalla luna che stava sorgendo.
-...tanto, tantissimo tempo fa, non c'era questo deserto, ma paludi. Paludi radioattive, velenose. Al mondo esisteva un animale incredibile, un piccolo essere succhiasangue che viveva proprio in posti come questo. Hai idea di come si chiamasse?
- Non saprei.
- Ci credo. Neanche io lo sapevo. Ma una volta ho dato uno strappo ad un professore di biologia che mi ha raccontato questa storia. E' incredibile come certe cose sembrino ovvie una volta che le sai, ma il tuo stupore mi ricorda che niente è veramente ovvio. Per questo, forse, mi piace raccontare storie.
- Capisco.
- Insomma, questo animale si chiamava "zanzara" ed era un'insetto. Non solo si nutriva di sangue, anche e soprattuto umano, ma si riproduceva a miliardi ogni stagione e diffondeva ogni genere di malattia.
- Anche mortali?
Mercury annuì gravemente.
- Sì: soprattutto malattie mortali. Un bel giorno, l'Algoritmo decise finalmente di finirla ed eliminò le zanzare dalla faccia della terra. Ora non esistono più tranne, pare, in qualche laboratorio perso tra i ghiacci perenni del grande sud.
- Che storia incredibile.
- Già, ma non era qui che volevo arrivare. Chi uccise le zanzare? L'Algoritmo, oppure le persone che miscelarono i pesticidi e li sparsero sulle paludi? Forse fu lo scienziato che ne isolò il ceppo genetico o come si chiama? E se fu lui, come e quanto venne istruito dall'Algoritmo a farlo? E' una cosa su cui dovresti riflettere. Io, almeno, ci ho riflettuto molto.
- Hai ragione. Avevo già sentito una cosa simile, in un certo senso.
L'occhio cieco di Mercury luccicò alla luce del cruscotto che li avvertiva di aver superato l'Incrocio 3.
- Racconta.
- Pare che quando l'Algoritmo fu lanciato, non tutti furono contattati direttamente. L'Algoritmo avrebbe potuto scrivere a ciascuno, ma molti vennero istruiti attraverso altre persone, come in una catena di fiducia. L'Algoritmo sapeva chi lo avrebbe ascoltato e chi avrebbe ascoltato coloro che egli aveva contattato. Pazientemente, giorno dopo giorno, arrivò a guidarci come ci guida oggi.
Mercury annuì, d'accordo con quanto gli veniva raccontato.
- Capisco quello che vuoi dire: "Roma non fu distrutta in un giorno".
Curzio esitò, incerto se correggere l'autista: forse il detto era davvero così.

sabato, novembre 16, 2019

Blue grass

Ambra siede sulla ringhiera di un vecchio letto trovata chissà dove. Alle sue spalle, un telo verde si contrappone all'imminente tramonto. Altrove, in un'ipotetica sessione di post-produzione, il telo potrebbe diventare un altro luogo, un altro tempo, qualsiasi altra cosa. Non qui.

Delio guarda Ambra con preoccupazione. Alle sue spalle, una tavola con quattro tazze colme di liquido fumante. Intorno: il deserto.
- Sono preoccupato per quella ragazzina. E' sempre più grande e sempre più sola.
E' ovvio che Delio debba ancora dire qualcosa, ma Lisa interviene per dare la sua opinione. Anche se non è una delle Fondatrici, Lisa è comunque la più anziana.
- La preoccupazione crea falsi bisogni; i falsi bisogni creano falso lavoro; il falso lavoro crea nuove preoccupazioni.
Delio fa una faccia come per dire "lo sappiamo", ma Lisa non può vederlo perché è cieca. Forse, pensa Delio, per questo motivo interrompe sempre tutti.
- Amico Delio, Lisa ha ragione: a che pro nuove nascite?
- Una nuova nascita sarebbe cosa buona, ma noi non facciamo bambini. Noi li attendiamo con gioia, sono due cose molto diverse.
Diletta e Luce: due brave ragazze che credono nella comune.
- Fare un bambino sarebbe...
Violet comincia a dire qualcosa, ma Lisa interrompe anche lei:
- "Fare", diceva la Prima Fondatrice, è il primo passo verso la confusione. "Subire" è la vera essenza.
Delio guarda Violet sconsolato.
- Violet, prego: stavi dicendo?
- Fare un bambino sarebbe utile per la piccola Ambra, tuttavia...
Suona la campana ad interromperla nuovamente: tutti finiscono in fretta le loro bevande per poi avviarsi ciascuno alle proprie attività. Violet si occupa di raccogliere le tazze ed Ambra la raggiunge.
- Vai al fiume a lavare?
Violet sorride: è ovvio, perché tante domande?


Delio guarda la comune dall'alto del pendio. Cerca sempre di essere critico, nei confronti di sé stesso e della comunità, ma spesso si rivela un compito troppo difficile. Così si abbandona alla tristezza, alla commozione, al senso di pietà del cuore per la condizione umana. Il lettore mp3 fa la sua parte, pompandogli nelle orecchie il plasma misterioso della musica. Troppe sensazioni in così poco tempo per poterle processare senza passare ad un livello inferiore di consapevolezza: regredire per lasciare che la meraviglia ti possieda. Le canzoni ormai sono sempre le stesse, ma Delio attinge a quella reliquia del futuro tanto raramente da non doversene preoccupare.

C'è qualcuno alle sue spalle: è Violet. Delio ripone frettolosamente cuffie e lettore nella tasca della camicia.
- Ah, mi hai trovato. E Ambra, dov'è?
- Alla comune, con le altre. Quindi è qui che vieni a rifugiarti. Credevo stessi dando una mano con il raccolto.
- Eh, il raccolto. Credimi, io ne ho raccolte di cose: non succederà niente se oggi mi occuperò d'altro.
Violet esamina il panorama, cercando i suoi punti di riferimento: la sala principale, il telo verde, il pozzo, la pala eolica. Ogni luogo della comune è rappresentato da un mosaico dei momenti che lo riguarda: accatastare sacchi di sabbia intorno al trasformatore prima dell'alluvione, festeggiare la notte di mezza estate all'ombra del telo verde, pompare l'acqua su dal pozzo nelle mattine gelate, prima dell'alba.

E' Delio ad interrompere il silenzio:
- Sai cosa facevano qui, prima che l'Algoritmo abbandonasse questo posto?
- Non ne ho idea.
Violet si siede.
- Nulla, assolutamente nulla. Solo una volta, una troupe venne qui per girare una scena di un film e lasciò il telo verde nella fretta di mettere il resto dell'attrezzatura al riparo da un temporale.
- E' strano.
- Probabilmente il posto è contaminato o qualcosa del genere. Non scherzo. L'Algoritmo non fa niente senza un motivo. D'altronde, a noi cosa può importare di vivere un anno di più o uno di meno? Importa vivere come vogliamo, giusto? Questa è la nostra scelta.
Violet non è sicura di essere d'accordo, ma si trattiene dal rispondere. Forse, nemmeno Delio ne è molto sicuro.
- Lo so che ti chiedo cose di cui non hai un'opinione. Neanche io ce l'avevo e chissà, magari anche la mia cambierà ancora. Ma le mie non sono vere domande, solo un modo di esprimersi. Di fare delle considerazioni.
- Delio, tu cosa facevi, prima di venire qui?
Il vecchio sorride, guardando Violet di sottecchi.
- Ero giovane. Sul serio. L'Algoritmo sa cosa ci rende poveri e tristi meglio di noi. Ero giovane, fino a quando non sono venuto qui e ho capito di essere vecchio. L'Algoritmo ti mantiene come, come chiuso all'interno di un vagone: viaggi solo con persone e con eventi alla tua portata. Quando si stabilisce un rapporto, l'Algoritmo di solito cerca di mantenerlo. In fondo, credo voglia solo il nostro bene. Se ami una persona, l'Algoritmo cercherà di tenervi insieme, se qualcuno per te è il migliore, l'Algoritmo lo manterrà in quella posizione relativa. Per questo dico che prima ero giovane. Non mi ero mai accorto di non esserlo più.
Violet si schiarisce la voce.
- Io ero venuta per dirti una cosa: me ne vado.
- Lo immaginavo. Ritornerai in città.
- No, non voglio ritornare dall'Algoritmo.
- Dove pensi di andare, allora? Quante comunità credi esistano, come la nostra? Siamo un'eccezione.
La voce di Delio non è priva di risentimento.
- Non lo so. Voglio solo andare via. Non voglio ritornare dall'Algoritmo ma forse è quello che succederà. Non lo so.
- Mancherai molto alla piccola Ambra...e a tutti noi.
- Lo so. Anche voi mi mancherete.
- Mi piacerebbe venire con te, Violet; ma ho trovato la mia verità e non sono ancora pronto per vederla cambiare. Forse non lo sarò mai. Per adesso rimarrò in questo deserto sperando di aver fatto la scelta giusta.
Lei nota che, per quanto vecchio, continua a ragionare come se avesse tutto il tempo del mondo.
- E' sicuramente la scelta giusta.

Violet si alza e Delio la segue con lo sguardo. Dove andrà? A cercare cosa? Forse fugge da qualcuno. Da giovane avrebbe lavorato, sulla base di queste premesse, per cercare di dare un'ordine alle cose. Avrebbe creato una, dieci storie che giustificassero quell'evento, fino a trovare quello giusto. Ma si trattava del tempo in cui era giovane e, per quanto potessero essere soltanto cinque anni prima, a Delio sembra un'infinità.
Una volta, al tempo in cui era solito "chiacchierare" con l'Algoritmo, aveva teorizzato che il tempo esistesse per gli esseri umani soltanto per via del giorno e della notte: l'unica ripetizione talmente evidente e precisa da richiedere una misurazione. Ogni altro cambiamento come l'invecchiamento, la gravidanza, lo scorrere delle stagioni, la crescita delle piante, era troppo fine per essere esaminato dalla sensibilità umana: tutte cose che sarebbero semplicemente successe senza correlazione con lo scorrere del tempo.
Il sole stava ormai tramontando: domani sarebbe sorto ancora una volta e Violet non ci sarebbe più stata.

venerdì, novembre 08, 2019

...stone finish

Stava arrivando l'ultimo temporale della stagione, ma Diletta e Luce non potevano certo saperlo.
Facce storte guardavano senza interesse il mondo appena sveglio passare fuori dai finestrini del tram su cui si erano imbarcate quasi un'ora prima.
Ultima stazione prima del capolinea: Diletta strinse la spalla della compagna, invitandola a scendere.
L'insegna del Bagel Boomer era ancora spenta. Luce esitò, ma Diletta le fece un cenno rassicurante.


- Mi metteranno sulla sedia elettrica.
La sera prima Luce piangeva, mentre l'amica le carezzava i capelli, strette nella stessa cuccetta.
- Nessuno ti farà niente. Stai tranquilla. Domani ti porto a mangiare i bagel. Conosco un posto.

La porta di ingresso era ancora lucchettata, ma Diletta si diresse con sicurezza sul retro. Un ragazzo qualche anno più giovane di loro stava fumando una sigaretta, accucciato sulla soglia.
- Ehilà.
- Ehi...apriamo tra dieci minuti, ma se volete finisco la sigaretta e vi faccio entrare prima.
- Grazie mille. Ehi, scusami: c'è Sean oggi?
Il ragazzo buttò la sigaretta in una pozzanghera, trattenendo il fumo nei polmoni per qualche istante mentre il freddo del mattino cominciava a rendere insensibile la punta del naso di Luce.
- No.
Si alzò, sparendo all'interno del negozio mentre faceva loro segno di andare dall'entrata principale.

L'ingresso si aprì.
- Sean non c'è. Mi dispiace. Voglio dire, non c'è proprio più: si è trasferito.
Guardava alternativamente l'una e l'altra, indeciso su quale delle due trovasse più carina. Forse nessuna. Erano in viaggio da trentasei ore.
- Trasferito dove?
Il forno cominciò a suonare.
- Entrate pure. Non fa niente, tanto dovevo aprire comunque. Sedetevi, io arrivo subito.

Cominciarono a sfogliare distrattamente i menù.
- Io prendevo sempre questo. Ma qui ordinano tutti questo qua. Ordinavano, almeno.
Luce annuì.
- Sembra buono.
- Sono molto buoni. E' stato bello lavorare qui...ormai sembra davvero una vita fa.

- E' tornato da sua madre. Al confine della città. Lavora tipo in una fabbrica di pneumatici.
Gli occhi di Diletta si riempirono di lacrime mentre Luce continuava a guardarsi intorno.
- Volete mica un bagel? Vi faccio un bagel, offre la casa. Anzi, ve ne faccio due. Ok?
- Grazie...
- Tod, mi chiamo Tod.
- Grazie, Tod. Io prendo un Mariner senza cipolle e tu?
- Quello che dice Tod andrà benissimo, grazie.
- Ok, arrivo subito allora.
Ma rimase sulla soglia, incerto.
- Scusate...
- Si?
- Non è che tu ti chiami Diletta per caso? Magari mi sbaglio.
- Sì, si esatto. Ma...come hai fatto?
- Ho visto la tua foto sulla parete dei dipendenti passati. Cioè, in realtà la vedo di continuo. Ci passo un sacco di tempo davanti perché è proprio sopra al lavandino. Grande, mi sembrava una faccia già vista: bentornata al Bagel Boomer.

Sorrisero, mentre Tod andava a preparare i bagel.

- Mi manderanno sulla sedia elettrica.
- Luce, ora basta con questa storia. Non ti faranno proprio niente.
L'autobus traballava nel buio della notte precedente.
Diletta l'abbracciò, parlando direttamente al suo orecchio senza più guardarla negli occhi.
- Ora, qualsiasi cosa tu abbia fatto, raccontami perché lo hai fatto. Non voglio sapere cosa, solo perché.

Il responsabile del Ninfea, il signor R., le aveva chiesto di trattenersi per due parole dopo il turno. Quando era andata a parlargli lui era occupato, al telefono. Le fece cenno di passare più tardi e così andò ad allenarsi in palestra.
Quando tornò nel suo ufficio in giro non c'era più nessuno. R. stava lasciando l'ufficio: si era fatto tardi e stava andando a mangiare qualcosa. Decisero di andare insieme a mangiare in un fastfood all'incrocio del benzinaio. Non parlarono di lavoro ma solo del tempo, di sport, dell'Algoritmo, della vita nell'hotel. Prima di essere mandato a gestire il Ninfea, R. aveva fatto il pompiere. Aveva un sacco di aneddoti divertenti sulla vita della caserma. Si fecero quattro risate e finito il panino tornarono all'albergo.
R. la fece accomodare nel suo ufficio mentre si serviva un digestivo. Una cosa speziata e ruvida che avrebbe potuto fare e bere soltanto lui.
All'inizio prese le cose davvero molto alla lontana. Sembrava quasi un colloquio per avere il posto che Luce già ricopriva. R. volle ripercorrere tutte le tappe della selezione: i test, le domande e le risposte che riusciva a ricordare, l'intervista con l'Algoritmo. Le chiese se avesse mai fatto rispondere qualcun altro al suo posto.
A quel punto Luce gli disse di no chiedendo di sapere il perché di tutte quelle domande. Si sentiva offesa e screditata. Si reputava una brava lavoratrice e voleva sapere dove volesse andare a parare.
- Tu non hai capito che tipo di hotel è questo, vero? Siamo l'unico hotel fuori città. Ti dice niente?
R. non era agressivo. Le sue parole lo erano, ma non il suo tono. Luce non rispose.
- Questo è un casino, Luce. Un bordello, un luogo di prostituzione. Sesso in cambio di denaro. Voi siete le cameriere che si scopano i clienti. Voi. Intendo dire, tutte le ragazze tranne te. Hai notato che il novanta per cento dei clienti sono maschi, single? Io non avevo mai gestito un luogo così prima d'ora ma vedo che funziona. Quindi posso dire con convinzione che credo nell'Algoritmo e so che manda sempre la gente giusta nel posto giusto. E' così per me ed è così per tutte le altre ragazze. Tutto ha senso, di solito. Ma tu ormai è quasi un anno che sei qui e vedo che non partecipi al gioco. Ti dai da fare, ma il motivo per cui sei qui, per cui lavori qui, è un altro e tu non lo stai rispettando. Mi segui? L'Algoritmo non ti avrebbe mai mandata qui se questo posto non avesse fatto per te, eppure sembri veramente arrivare da un altro pianeta, non vedere le cose per quello che sono ed essere l'unica a non rendersene conto.

Paralizzata sulla sedia, Luce non sapeva da dove incominciare. Si limitò a fissare gli occhiali di R., posati sulla scrivania.

- Ti farò vedere una cosa. Non dovrei farlo, perché teoricamente significherebbe contaminare i tuoi rapporti con l'Algoritmo, ma se non capisci questa sera dovrò comunque contattare il Sistema di Gestione domani mattina, per cercare di capire cosa sia andato storto e perché tu sia finita proprio qui come, come un pesce fuor d'acqua. Sarebbe una cosa penosa, per me e per te. Verremmo sottoposti a nuovi test e probabilmente saremmo ricollocati entrambi. Siccome le cose vanno bene non vorrei arrivare a tanto, per cui ti faccio vedere questa cosa:

Aprì la busta che teneva in mano ormai da qualche minuto. Era una trasmissione ufficiale dell'Algoritmo, protocollata. Controluce, vide il suo nome stampato in grassetto sul lato che R. si accingeva a leggerle.

- Luce H. White, ventisei anni, sentimentalmente libera e socialmente disinibita. Predisposta alla cura degli ambienti sociali e della persona. Inclinazioni sessuali chiare e definite, di mentalità aperta ed altamente disponibile all'incontro sessuale occasionale a fini di lucro. Sensibile, attenta, decisa, amante dei gatti eccetera eccetera eccetera. Il resto non importa perché in questo posto conta solo una frase: "disponibile all'incontro sessuale occasionale a fini di lucro". Altamente disponibile, Luce. Lo dice l'Algoritmo e quindi lo dici anche tu: come mai sembra che non giochiamo allo stesso gioco?

- Mi manderanno sulla sedia elettrica Diletta, mi uccideranno perché non l'ho data a quattro vecchi bavosi di merda. Anzi, perché avrei dovuto farlo e non l'ho fatto.
- No, non è quello il motivo. Tu non sei così. Non come ti ha descritta. Ci deve essere qualcosa che non funziona.
- Mi manderanno sulla sedia elettrica: ho ammazzato un tizio perché non riuscivo a sopportare di sentirmi dire che non fossi fedele a me stessa. Ma chi ha ragione, Diletta? Io, oppure l'Algoritmo?

giovedì, novembre 07, 2019

Rock start...

Erano sorelle.
Per lo meno, questo era quello che pensava ogni persona che le vedesse insieme.
Sorelle nate da madri diverse e padri diversi. Sorelle con diversi fratelli e diverse sorelle.
Il termine sorella doveva aver cambiato significato, almeno per loro.
Sorelle nella sorte: questo sì, di sicuro.


Storditi dalla notte passata affacciati sulla tangenziale, gli avventori che si recavano nella hall del Brolnard Hotel per fare colazione avevano più di un buon motivo, oltre alla fame ed al cattivo riposo, per omettere ogni dettaglio evidente ai sensi - diversi capelli, occhi, carattere e profumo - e chiedersi, a volte perfino ad alta voce, se Luce e Diletta fossero sorelle.
Loro, sorridendo, rispondevano sempre chiedendo se preferissero latte caldo o caffè.
Ma la quiete vita del Brolnard le aveva stufate. Fecero i loro conti e si decisero a chiedere all'Algoritmo un trasferimento comune.
Erano giovani e pronte a vivere la vita così come gli sarebbe arrivata.
Completato ogni test che fu loro sottoposto, rassegnarono ogni ulteriore speranza al fato in attesa di un responso.

Non tardò ad arrivare: furono destinate ad est, nei pressi di una città di crescente importanza. Il bando descriveva l'hotel in cui avrebbero lavorato come "desideroso di farsi un nome". Sembrava il luogo giusto dove mettere a frutto le loro aspirazioni.
Diletta non era troppo convinta dalla destinazione. L'est confliggeva con la sua idea di sicurezza: il clima appiccicoso, l'accento, il tipo di affari che si conduceva in quelle zone. Tutto risuonava in maniera grave e minacciosa, come se si fosse esaminato il suono del futuro dall'imbocco di una buia caverna piena di animali muti e sconosciuti: una cacofonica eco di promesso terrore.
Anche Luce era preoccupata, ma non avrebbe mai permesso di darlo a vedere.
Partirono con l'autobus, salutando con una scrollata di spalle quel luogo di cui presto avrebbero ricordato a malapena il nome. Nel suo continuo rimescolamento, l'Algoritmo non lasciava che le persone si attaccassero troppo ai luoghi, tanto più se questi erano luoghi davvero poco meritevoli di ricevere l'affetto di qualcuno.
Eppure, pensava Diletta incapace di prendere sonno nella sua cuccetta, c'erano delle zone di quel vicinato che avrebbe voluto ricordare. Se non altro, avrebbe di certo conservato quei momenti in cui aveva sentito che vivere significava qualcosa. Immaginava quel significato come un cercare, o meglio un aspettare con pazienza, l'arrivo di qualcosa di sacro. Una sera d'estate, mentre buttava l'immondizia, aveva notato che il basso gracidare dei rospi si era interrotto e, volgendo istintivamente lo sguardo al cielo, aveva ammirato tre aironi volare senza sforzo nel plenilunio.

Prima di lasciare la città, Luce era corsa a salutare Crudo, lo sfasciacarrozze. Si era prefissata di chiedergli finalmente il perché di quel soprannome, sperando di scoprire finalmente chissà quale risvolto romantico. Il ragazzo non c'era. A Capodanno si erano baciati, troppo ubriachi per fare l'amore, anche se Luce gli aveva detto di trovarlo piuttosto brutto, di viso e di fisico. Il signor Wong, responsabile dello sfasciacarrozze, disse che Crudo sarebbe tornato dopo l'ora di pranzo. Lei decise che aspettarlo non avrebbe avuto senso.

Il Ninfea era un hotel ben diverso da quello che avevano appena lasciato.
Il numero delle camere non era molto più alto, ma le pretese erano alquanto maggiori. Spinto dagli indicatori del consumo, l'Algoritmo aveva deciso di fondare questo albergo fuori dalla città per permettere ai trasfertisti di avere un'alternativa per riposare comodamente nelle vicinanze dell'area industriale, lungo il tragitto tra la città e la superstazione.
Di giorno l'atmosfera era spettrale ma di notte, illuminata dalle centinaia di luci-guida delle raffinerie, la facciata del Ninfea diventava come un diamante avvolto da freddi lapilli multicolori.
Il nome era stato scelto in seguito ad un concorso tenuto in una serie di scuole elementari cinesi.
Ci sarebbe dovuto essere anche un aggettivo, insieme al nome, ma i bambini non ne avevano trovato uno adeguato; così rimase soltanto "Ninfea".

Un lungo anno passò, con lenta determinazione, fino a che una notte Luce corse a svegliare Diletta.
- Svelta: prendi le tue cose. Andiamo via.
- Luce -cosa, come? Perché andiamo via?
- Se mi vuoi bene, prendi le tue cose. Andiamo via.
Si udirono sbattere delle porte. La luce verdastra del corridoio, facendo capolino sotto alla porta, si accese.
Si tuffarono giù per le scale in un frettoloso sciabattare, ma nessuno sembrava seguirle.
Dopo aver corso a rotta di collo, ripararono in una via secondaria e giunte all'ombra di una ciminiera Diletta trovò finalmente il fiato per chiedere:
- Dove andiamo?
- Non lo so.
Luce tirava su col naso, piangendo.
- Ma dove...come mai stiamo scappando così come, come delle ladre?
Si avvicinò a Luce, che si era abbandonata su un muretto, facendo cadere il suo zaino. Durante la corsa, aveva perso buona parte delle cose con cui aveva cercato di riempirlo. Teneva sempre i calzini sempre bene in ordine nel cassetto, arrotolati a due a due: anche se ne avesse perso qualcuno correndo, non ci sarebbero potuti essere calzini spaiati.

mercoledì, ottobre 30, 2019

Prussian Blues


Era in corso, ormai da qualche ora, il temporale più lungo e forte dell'anno.
I torrenti si stavano ingolfando rapidamente, avvicinando le loro acque sudice agli argini come mani di affamati al pane.
Curzio accese un'altra sigaretta. Da quando lui lo aveva lasciato aveva ripreso a fumare, ma non riusciva a pentirsene abbastanza per smettere.
- Curzio, andiamo: smettila di fumare.
- Dai Petroni, sono un adulto: fumo quanto cazzo mi pare, giusto?
Petroni si avvicinò alla scrivania di Curzio. Era un uomo alto, con la faccia rossa e asciutta come un mattone. Uno che non sapeva scherzare. Ci provava, ma il più delle volte non ci riusciva. Aveva un bambino piccolo simpaticissimo, che doveva aver preso dalla madre. Alle volte era palese che ne soffrisse. Non di non saper scherzare, ma che il figlio avesse preso dalla madre.
- Curzio: stiamo andando. Devi smetterla di fumare perché in macchina con la sigaretta non ci sali.

Finirono entrambi con le scarpe dentro la gigantesca pozzanghera che separava il palazzo dal parcheggio.
- Dove dobbiamo andare, con questo tempo? C'è l'allerta.
Petroni innestò la prima.
- Sai, una volta avevo una ragazza come te. Insomma: tu me la ricordi molto.
Doveva essere un basso naturale, o qualcosa del genere: ogni tanto le scrosciate di pioggia sulla carrozzeria e sul parabrezza si sovrapponevano alle sue parole, tanto erano simili le loro tonalità.
- Faceva sempre domande. Parlava per domande. L'unica volta che non finì una frase con un punto interrogativo fu per dirmi che mi lasciava.
- Cioè, fu lei a lasciarti?
- Lo vedi? Anche tu parli per domande. E' una cosa su cui dovresti riflettere, Curzio.

La pioggia non accennava a smettere. Un fuoristrada della protezione civile li avvicinò in galleria per capire come mai fossero in giro a quell'ora, con quel tempo. Magari, chiese il tizio della protezione civile, avevano bisogno di aiuto. Fu Curzio a parlare. Con collaudate frasi fatte fu abbastanza convincente da farli desistere e sufficientemente evasivo da non dare loro troppe informazioni.

Arrivarono all'incrocio mentre il palazzo veniva illuminato dall'incessante, epilettico bagliore giallastro di quella tempesta di fulmini di fine estate. Sembrava che da un momento all'altro la trama del cielo dovesse squarciarsi per rivelare milioni di asteroidi infuocati pronti ad incenerire il pianeta. Petroni aprì il bagagliaio per prendere la sacca e si accorse che qualcosa stava tentando, invano, di distrarlo. Era un ricordo di molti anni prima: l'acqua scrosciante sui bordi della tenda, la faccia sferzata dal vento freddo mentre, insieme ai suoi fratelli, guardava un temporale proprio come quello scuotere gli alberi al bordo della radura in cui si erano accampati. Il sapore della camomilla e il calore del corpo avvolto nella mite umidità del sacco a pelo, come in una placenta artificiale, si erano mischiati - allora e ancora nel ricordo stesso - fino a diventare una percezione unica, multisensoriale, che a sua volta richiamava un periodo epico, al tempo della sua stessa gestazione.

Salirono le scale antincendio in silenzio, usando grande circospezione. L'acqua, mal tollerando la loro presenza, scorreva giù dalla facciata come una cascata, costringendoli ad una doccia continua. Le calze di Curzio, ormai totalmente bagnate, lo mettevano a disagio. Non vedeva l'ora di togliersi di dosso la sensazione avere i piedi umidi e grinzosi.
Arrivarono al tetto.
Petroni depositò la sacca a terra e prese una torcia per esaminare un foglio che aveva precedentemente plastificato. Con tutte quelle saette, la torcia praticamente non serviva.
Curzio estrasse le macchine fotografiche dalla sacca. I tappi degli obiettivi, prodotti in qualche angolo remoto del mondo dove probabilmente, in quello stesso momento, stava splendendo un grande sole rosso rubino, vennero subito imperlati da miliardi di minuscole gocce d'acqua.
- E se adesso mi colpisse un fulmine?
La domanda non era rivolta a nessuno. Petroni lo capì e si limitò a sospirare.
Riprese ad esaminare il foglio, leggendo con le labbra.
Curzio impugnò la macchina fotografica, aggiustò il parapioggia, prese la mira e cliccò. Lo scatto, cadendo precisamente tra un tuono e l'altro, venne archiviato dal temporale come cosa di poco conto.
- Ok, qui dice che basta così. Andiamo.
- Tutto qui?
- Curzio, ti prego: basta domande.

Ritornarono lentamente alla macchina. Curzio salì dalla parte del guidatore e si tolse le scarpe mentre Petroni rimetteva la sacca nel bagagliaio.
- Che cosa fai? Guidi scalzo?
Curzio non rispose e la macchina si avviò lentamente per tornare da dove era venuta.

Giorni dopo si fermarono al semaforo di quello stesso incrocio. Splendeva il sole ed i piccioni si rincorrevano sul marciapiede per contendersi la briciola più grande di tutti. Petroni aveva gli occhiali da sole e dalla sua posizione sul sedile del passeggero si sarebbe detto che dormisse.
Qualcosa bussò alla porta dell'attenzione di Curzio, trovandola socchiusa: era un ricordo, anzi, una collana di ricordi. Una lunga catena di frammenti che si erano riconosciuti simili tra loro ed ora chiedevano di essere esaminati. Il Petty Pigment si affacciava proprio su quell'incrocio: era un locale dove non era mai stato, ma lui gliene aveva parlato. Benché non ricordasse precisamente le parole del racconto, riusciva distintamente a ricordare l'immagine che si era fatto di quella serata.

Lui, con una maglietta attillata e fresco di doccia, entrava nel locale fumoso dove un terzetto blues rimaneggiava con mani inesperte i grandi standard del genere. Si sedeva al bancone aspettando qualcuno. Il suo lento respiro dopo l'allenamento intervallato da lunghissime sorsate di birra fresca. Aveva gli occhi arrossati dal fumo e dal neon. Finalmente il tizio, un compagno del liceo magrolino e con la faccia gialla come un limone, gli picchiettava sulla spalla per annunciare il suo arrivo. Baci e abbracci. Si spostavano ad un tavolo più appartato mentre Mannish Boy veniva stuprata sul palco. Lui, durante lo spostamento, veniva inquadrato solo di schiena. Quella gigantesca schiena pelosa, fasciata dalla tela acida della maglietta, invadeva tutto lo schermo.
Altra birra ed occhi sempre più arrossati, convenevoli e qualche battuta.
Ad un certo punto, proprio mentre la band lasciava il palco per far spazio a musica registrata e suonata meglio, l'amico riceveva una telefonata.
Una cosa da niente, che tuttavia gli aveva dato il tempo di vagare con il pensiero, soffermandosi sul discorso del tavolo a fianco. Per via del divano che condividevano e li separava, non poteva vedere la ragazza che stava parlando: solo sentirla. Sembrava che la musica fosse stata cambiata ed abbassata di proposito.
La tizia si esprimeva per domande: aveva un fidanzato fotografo? Che insisteva per portarla a pescare ogni weekend? Mentre lei sarebbe voluta restarsene a casa per guardare E.R, giusto?
Tutti questi dettagli, che lui al tempo gli aveva raccontato solo come pretesto per imitare il buffo accento e l'oratoria interrogativa di quella sconosciuta - per riderne insomma - componevano finalmente un quadro chiarissimo. Petroni era il fidanzato con la fissa della pesca, che presto sarebbe stato lasciato. Di quanti anni prima poteva trattarsi?

Guardò Petroni riflesso contro le plastiche argentate del cruscotto, mentre il semaforo diventava verde per portarli lontano dal Petty Pigment. Avrebbe voluto saperne di più di quella ragazza, del perché il destino o chi per lui avesse così chiaramente deciso di mettere in contatto il suo passato con il suo presente proprio attraverso di lei.
- Cosa fa oggi?
- Dio mio Curzio: non solo mi fai sempre domande, adesso ti perdi perfino i soggetti. Di chi stai parlando?
Si schiarì la voce. Da dove cominciare? Dritto al sodo, improvvisamente.
- La tua ex. Cosa fa oggi?
Anche Petroni si schiarì la voce, come se fosse stato preso in castagna. Forse ci stava ripensando anche lui.
- Ha lasciato la città. Vive in una comune che nega il valore del lavoro. Non so altro.
Aveva finito le domande: avrebbe voluto farne ancora, ma il tono della voce di Petroni non ne ammetteva altre. Dovette ricorrere ad uno stratagemma.
- E il suo nome era...
- ...Violet, si chiamava così.
Curzio ripeté il nome più volte nella sua mente, cercando di assimilarlo.

Violet, ma certo: il viola viene sempre dopo il blues.

venerdì, ottobre 11, 2019

Glory whole

Eravamo ormai delle vecchie baldracche.
Come fossimo diventate baldracche lo sapevamo: qualcosa, al termine della nostra pubertà, era scattato in modo repentino e attento, come qualcuno che apre una porta cigolante di botto, sapendo che così farà meno rumore.
Come fossimo diventate vecchie restava ancora un mistero.
Le cose si erano sicuramente complicate negli interminabili viaggi. Il sonno rubato a spizzichi e bocconi tra un terminal e l'altro, sballottate solo con un po' più di grazia delle nostre valige, su e giù per la grande giostra volante. Il sole sorgeva e se ne andava semplicemente quando ce n'era bisogno, senza essere più collegato ad un orario o a un quadrante. Qualche furbacchione cercava sempre di riportare le cose ad un riferimento certo, con scarso risultato. Il caro vecchio meridiano di Greenwich poteva anche andare a farsi fottere.
Ecco, l'altra cosa furono le parolacce. Fino alle soglie dell'età adulta, prima che tutto cominciasse a ripetersi ritornandoci in gola come un minestrone acido e mai davvero digerito, l'uso delle parolacce era sempre stato misurato e attento. Esse si stagliavano nel percorso dell'innocenza come epiche pietre miliari, fari che permettevano di misurare le distanze e quindi il tempo. Quella volta che la suora era scivolata e lo aveva detto, quella volta che tirammo un petardo tra le gambe di un passante e disse la stessa sei volte di fila, quella volta che l'allenatore ci prese da parte per dirci tutte quelle che aveva dovuto trattenere durante la partita. Da un certo punto in avanti però, era tutto diventato un cazzo, stronzo, fica, bucodiculo, puttana, merda, troia e poi ancora cazzo e cazzo e cazzo, all'infinito.
Forse avevamo fatto male, da giovani, a prendere questi elementi come metri per il passare del tempo, ma cosa potevamo saperne?


Mi accorgo del passare delle stagioni attraverso i piedi. Per questo motivo, a causa delle calze, l'inverno mi sembra interminabilmente lungo. Quando vedo uno schermo altrui ho subito lo stimolo di guardare, sbirciando: capire senza dover sapere. O viceversa, comunque è il vizio di una vita intera.

Ascoltando Dvorak aveva sempre l'impressione che il mondo dovesse finire da un momento all'altro.
In effetti, ascoltava sempre e soltanto la nona sinfonia: "Dal Nuovo Mondo".
Era rimasto estasiato nell'apprendere la nozione, innestata per sempre nella sua memoria anni prima durante la lettura di un qualche numero primo della Settimana Enigmistica, attraverso quel meccanismo perfetto e arcano del "Forse Non Tutti Sanno Che...", che Neil Armstrong portasse con sé proprio quell'opera durante la missione Apollo 11. Benché ascoltasse anche altro, di altri musicisti e di Dvorak stesso, nulla pareva emozionarlo e coinvolgerlo allo stesso modo.
Ascoltando Dvorak aveva sempre l'impressione che il mondo nuovo non fosse semplicemente una manifestazione rinnovata di questo ma proprio un Nuovo Mondo che, sconquassando e distruggendo, irrompesse in una bella giornata di sole per cancellare tutto ed imporre su ogni cosa la propria identità. Un giorno mi disse che facendo attenzione si potevano perfino sentire le colonne del mondo sgretolarsi sotto l'impeto di quel tetro avvicendamento.
A me sembrava solo il suono dello strisciare della puntina sul disco, ma per lui non faceva differenza. Cercavo invano di distrarlo con ogni mezzo: puntualmente, proponevo un nuovo ascolto delle danze slave per dare una prospettiva più rosea, o almeno meno statica, alla sua visione. Inutile. Perfino le teorie complottiste, un classico delle menti geniali tenute troppo a digiuno, non riuscivano a scalfire quel presagio mistico che lo richiamava a sé, ascolto dopo ascolto. Forse non tutti sanno che un certo August Dvorak, lontano parente del celebre compositore che aveva combattuto contro Pancho Villa, viene tutt'oggi ricordato per aver creato una tastiera speciale che...non importa.
Anni dopo, ormai distanti nel tempo e nello spazio, ebbi come un'illuminazione: la gloria era ciò che lo aveva fulminato. La gloria, tutta intera, tutta in una botta unica, lo aveva circondato e annientato.
Gloria, sostantivo femminile: onore universalmente riconosciuto e tributato nei confronti di un valore assolutamente eccezionale.
La nona sinfonia per lui era la quintessenza della gloria o, meglio, la gloria gloriosa. Il trionfo del trionfo, l'orgasmo al quadrato. Non aveva altro modo per spiegarsi questo cortocircuito sensoriale se non descrivendolo come la fine del mondo.

In un certo senso, il mondo era davvero finito. Tra le porche troie e tutte le altre parolacce sibilate contro un destino molto più ignoto che crudele, il tempo era passato ed il mondo nuovo si era sostituito al vecchio. Si potrebbe dire che era stata una rivoluzione pacifica, quasi desiderata. Come una porta cigolante aperta di scatto per fare meno rumore.
Ogni tanto provavo ancora a riascoltare l'attacco delle danze slave per vedere se riuscivano a farmi rivivere quella sensazione. L'euforia di essere euforici, l'eccitazione dell'eccitamento, la gloria tutta intera. Niente, dovevo averla consumata, proprio come avevo consumato la sorgente di nostalgia che zampillava dalla suite per violoncello di Bach. Avevo come un lontano ricordo di aver già consumato e ricaricato quella sensazione altre volte, ma non riuscivo più a mettere in ordine gli eventi ed il senso con cui si erano svolti. Forse ero ancora un feto la prima volta che la musica aveva perso la possibilità di trasmettermi quella sensazione per la prima volta. Magari iniziavo a strutturare dei ricordi giusto nel momento in cui la vena si era esaurita di nuovo e via così, all'infinito, distillando la sensazione della ricerca della sensazione.
Doveva necessariamente esserci un modo per leggere quelle maree, una rappresentazione cartografica dei modi di vibrare dell'animo quando viene sollecitato da un'aria sulla terza corda. Deve esistere. La rappresentazione cubista delle frequenze che descrivono l'anima attraverso le sensazioni che essa stessa prova, esprime ed è.

mercoledì, settembre 18, 2019

Wider than a mile

La luna, alta nel cielo, sembra un piatto svuotato dopo una grande festa.
Che cosa avrà contenuto?
Inutile domandarselo: non ricordo mai cosa ho mangiato la sera prima.


- Signora, la sua lavastoviglie è pronta: le consiglio di usare il prodotto che ho lasciato sul piano della cucina già dal primo utilizzo. Non se ne pentirà.
- Grazie infinite, lei è stato davvero gentile e discreto.
- Ci mancherebbe altro, è il mio lavoro.
- Certamente; è ovvio.
- Bene, dunque, allora vado.
- Permette, io, forse, lei gradirebbe...un caffè?
- Non bevo caffè signora, per i denti.

Al picchiettare di quell'unghia contro lo smalto, i nostri occhi si aprono improvvisamente. Riacquistiamo subito la percezione della profondità e del colore: innaturalmente, come solo il cinema sa fare. Un attimo prima c'era la luna, adesso: una coppia male assortita.
Lui con la tuta blu e grigia, impreziosita soltanto dal logo della ditta, cucito sul cuore.
Lei rosa e beige, come il viso di un bambino febbricitante. Ciabatte azzurrissime e luccicanti: uno scialle dello stesso colore le riprende, mozzandole simbolicamente la testa.

- Per i denti?
- Certo: ha un'idea?
- Lo immagino...ma quindi, che posso offrirle?
- Signora, mi permette di essere indiscreto?

Silenzio. La sua mente riporta cautamente a galla il concetto di discrezione. Lei lo ha ringraziato per essere stato discreto e adesso lui chiede di non esserlo più? Cosa intende fare?
Il permesso non va mai dato con tanta facilità: spesso, le avventure meno piacevoli cominciano proprio con il consenso.
- Deciderò dopo la sua proposta.
- Molto arguta: questo rafforza la mia convinzione. Signora, io vorrei leggerle i Tarocchi.
La signora esala il respiro trattenuto con un sussulto, emettendo un verso inintelligibile: che sia un latrato, una frase interrotta dal pudore, o un rutto? Non ci è dato saperlo.
- Badi bene che i miei non sono Tarocchi normali, sempre che ne esistano di simili. Diciamo che sono Tarocchi non convenzionali.
- Tutto qui? Vuole solo leggermi le carte? Il futuro?
- Esattamente.
- Ed è una cosa che si fa da vestiti?
L'idraulico sorride.

Il tavolo è posizionato proprio di fronte al camino acceso, così che nessuno dei due abbia troppo freddo. Lei, pudicamente indecisa se tenere il seno sopra o sotto il piano del tavolo, opta per un'innaturale posizione inclinata che svela un capezzolo nascondendo l'altro.
L'idraulico è in brodo di giuggiole ma cerca di mantenere un certo decoro, aiutato dal piano del tavolo.
- Come le spiegavo, il mio mazzo è piuttosto speciale. Capirà tutto man mano che escono le carte, d'accordo?
- D'accordo.
La signora si morde il labbro: eccolo, il consenso! Sente di aver tradito se stessa, come quando si risponde al call center "si" invece della generica risposta affermativa, con il lecito terrore che la registrazione di quell'unico "si" possa essere utilizzata per i fini più loschi.
Ormai però, la signora è troppo nuda e troppo curiosa per preoccuparsi davvero: dietro indicazione dell'idraulico chiude gli occhi e si lascia condurre nella lettura.

- La prima carta riguarda il passato: si concentri sui suoi piedi, essi sono la parte di noi che più lo rappresenta. Cerchi di ricordare le ore di questa giornata, il mio arrivo in questa casa. Poi, indietro fino al giorno in cui la lavastoviglie si è rotta. Ancora: il giorno in cui l'ha acquistata. Indietro, fino al primo ricordo che ha di una lavastoviglie. Giù, dritta all'anno in cui fu inventata; ora proceda a ritroso fino all'anno in cui qualcuno desiderò, per la prima volta, che esistesse qualcosa di simile. Non importa se non conosce la vera storia: il nostro è un viaggio metaforico.
L'idraulico gira la prima carta e la signora non può fare a meno di sbirciare.
- Il Rolex. Uno degli arcani maggiori dei Tarocchi più simbolici. C'era un uomo nella sua vita, non è vero?
La signora ha un sussulto ed annuisce, mentre i capezzoli si allineano, portandosi entrambi sopra al piano del tavolo.

- Ora è il momento di guardare al presente. Non serve essere pronti: il presente è già presente!
La seconda carta viene girata con uno schiocco: la signora attende trepidante.
- Il CD piratato. Molto interessante: ne ha mai posseduto uno? Questo è il simbolo della ricorrente transitorietà delle cose. Lei sta vivendo un momento di passaggio tra la sua vita e la prossima. Questo è un momento illecito, imprevisto: il simulacro di ciò che le spettava veramente.
- Un'altra vita...
Sussurra la signora annuendo.
- Prima di guardare al futuro, dobbiamo ragionare perpendicolarmente al tempo: da dove viene e dove sta andando, metafisicamente? Per capire il punto di partenza, le chiedo di pensare intensamente al suo letto.

L'idraulico gira la carta e rimane un momento in silenzio.
- Ah, la Finanza.
- Perbacco, è un cattivo segno?!
- Non è certo un segno di semplice lettura, specialmente in questa posizione. Ma non sempre la Finanza è un male nella lettura dei Tarocchi: in questo caso, può significare che lei ha una personalità forte che la costringe in dogmi che non le appartengono. Probabilmente, il suo punto di partenza le è stato imposto da qualcun altro. Se però lo leggiamo in combinazione con il CD piratato di prima, possiamo pensare che la Finanza non sia davvero riuscita in questo obiettivo: dico bene?
La signora versa un'unica lacrima, senza rispondere.
- Vediamo la sua prossima destinazione metafisica: pensi alle ferie.
Un'altra carta viene girata sul tavolo con grande solennità.
- Ecco: sì, molto interessante.
- Che cosa dicono le carte?
- È uscito un Tarocco molto particolare: la scatola dell'iPhone. Di solito rappresenta la truffa e l'inganno, ma in questa posizione può significare anche la possibilità: c'è un iPhone nella scatola, o è solo un mattone? Solo aprendo la scatola potremo scoprirlo.
- Capisco...

- Signora mia, siamo giunti all'ultima carta, è pronta?
La donna annuisce e l'idraulico gira la carta. Che ore si sono fatte? Il tempo sembra essere rimasto a terra, accanto ai loro vestiti, in attesa di tornare sulla scena. Una nuova carta compare accanto alle altre.
- Ah, magnifico!
- Posso vedere?
- Non ancora, mi lasci finire. È uscita la luna.
- La luna?
Chiede sorpresa lei, ripensando alla luna della sera prima vista quello stesso mattino, andando a buttare l'umido.
- La luna è il Tarocco per eccellenza. Il pianetino spento che specchiando una stella diventa suo pari. Cosa sono in fondo, i Tarocchi? Senza gli originali non sarebbero niente, così come ci appaiono niente al loro cospetto: in questa parabola tra uno zero e l'altro c'è tutto il mondo: ogni massimo, ogni assoluto. Il Tarocco è la versione di noi veramente libera, che è senza costrizioni, senza qualità, senza controllo. Deve sapere che la luna viene chiamata anche il Tarocco autentico.
- E in questa posizione, ha un significato buono oppure cattivo?
- Signora, lasci che le dica una cosa: lei ha veramente due occhi fantastici.
- Ma se li ho tenuti chiusi quasi tutto il tempo!
L'idraulico sorride ancora una volta, mettendo sul piatto del giradischi il lato A di "Moon River".
- Appunto.

sabato, settembre 14, 2019

Taurus at nadir


Si chiamava Mariopieromarcello ed abitava in Vico dei Fornai.
Tutti però lo chiamavano il Santo di Vico dei Fornai perché tanti anni prima aveva salvato una bambina da un incendio.
Quando passava per strada le donne, specialmente quelle più anziane, si facevano il segno della croce e chiedevano perdono per peccati che nemmeno avevano commesso. Gli uomini fingevano di non vederlo, perché ne erano invidiosi, eppure nutrivano per il Santo un enorme rispetto. Come di quelli che si riserva per il monarca di un altro paese.
Col tempo, la reazione maschile e quella femminile al passaggio del Santo si erano confuse, scambiandosi e mescolandosi. Questo processo di miscelazione era proseguito ancora, anche dopo che il Santo era morto, nel modo con cui la gente lo ricordava. Gli uomini continuavano a fingere di non vederlo, ma facendosi il segno della croce. Le donne, che ne erano diventate invidiose, continuavano comunque a chiedere perdono; specialmente le più giovani.

Il fatto che si chiamasse Mariopieromarcello era sconosciuto ai più. Eppure, l'impiegato dell'anagrafe che si era occupato della sua registrazione era solito ricordarlo a tutti con grande enfasi. Era un uomo minuto, quell'impiegato, con grandi rughe profondissime dentro cui la storia della penisola aveva seminato i noccioli dei frutti che aveva divorato con maggiore voracità: il seme dell'eleganza, quello della parsimonia, del decoro, del vivere civile. Non erano mai germinati ma forse, un giorno...

Era un mattino di primavera. L'aria tersa faceva capolino dal fondo dei calendari e degli armadi, mettendo in disordine tutte le sciarpe e tutti i berretti. Arrivava da est, come tutte le cose nuove; ed era diretta ad ovest, dove tutte le cose trovavano la loro fine. Appena tornato dal meridione, un marinaio si ritrovò a constatare con serietà i diversi orientamenti, rispetto al mare e rispetto al sole, delle città che aveva visitato negli ultimi mesi. Nessun posto aveva una disposizione logica come la città che gli aveva dato i natali: le montagne alle spalle, il mare di fronte, il sole che arrivava da sinistra e se ne andava da destra. Il suo capitano non poteva sopportare simili considerazioni, per cui il marinaio le teneva per sé: presto sarebbe diventato un vero marinaio e così, facendosi tutt'uno con il mare, avrebbe rapidamente dimenticato il senso di ogni direzione. Si chiamava Mariopieromarcello, nome preso in prestito da un trisavolo vissuto oltre cento anni prima, che a sua volta aveva ricevuto il nome dal nonno, impiegato all'anagrafe. Era un nome altisonante, che il marinaio a volte fingeva di non sentire, perché ne era invidioso.

Le oche del vicino ascoltano il sax a mezzanotte. Verrebbe da chiedersi perché lo facciano, ma la verità è che non lo fanno. Le oche non vogliono ascoltare il sax, nel senso che non intendono farlo. Il campo delle cose che le oche possono voler fare non comprende l'ascolto del sax, tantomeno a mezzanotte, a meno che non si decida di farglielo ascoltare. Siamo noi a mettere la musica nelle loro orecchie, sempre che anche gli organi delle oche dedicati all'udito abbiano questo stesso nome.
Dimenticare di essere, o di poter essere, parti attive di un'azione è tanto frequente quanto potenzialmente pericoloso. Le nostre menti hanno code di volpi, con cui cancellano le proprie tracce con somma vergogna. Negando l'esistenza delle profezie autoavveranti e delle premonizioni autoevitanti, ammiriamo un gruppo di goffi uccelli radunarsi contro la recinzione, fatalmente attratti dalle note blu di uno strumento a fiato, per farsi cullare col massimo della dolcezza tra le mura riscaldate dal sole di Vico dei Frati Stanchi.

Stava ormai scendendo la sera. Ancora due boe della corsia e poi sarebbe stato sempre meno giorno e sempre più notte, senza ulteriori punti di riferimento per scandire il tempo se non l'orizzonte. Dove sarebbero andati tutti quei pensieri, fatti nel buio di una camera d'albergo, ora che non sarebbero più serviti? Il futuro sembrava molto più reale quando doveva ancora realizzarsi: ora, con il futuro ormai prossimo, sentiva di aver impegnato la propria mente soltanto con elucubrazioni senza senso.
La costellazione del toro sarebbe comparsa timidamente, ancora una volta, da qualche parte agli antipodi, cercando di illuminare un mondo capovolto in cui persino la luce scivolava giù, gocciolando senza fine.

lunedì, settembre 02, 2019

Mutandine

Ovvero: le piccole cose da cambiare.
"Vezzeggiativo" è una di quelle parole che si usano soltanto quando le si studia. Allo stesso modo, "spuma" è tra quelle parole che si possono usare soltanto se si hanno dei nipoti o se si possiede un bar in campagna.


Uno dei miei sogni è quello di creare un museo del profumo, nel senso: un museo dei profumi commerciali. Sarebbe insieme banca e museo, centellinando nei secoli l'odore popolare.
Annusate: questo è Chanel n°5.
Da quest'altra parte, potete apprezzare ciò che avreste sentito limonando una femmina di buona famiglia, a Riccione, nel 1999.

Ci sono dei ragazzi di fronte a me che giocano ad un due tre stella da seduti: lui cerca di avvicinarsi per baciarla sul collo. Il profumo di lui non lo sento, ma posso immaginarlo: sa di sudore, sapone neutro e calze di spugna calde. Quello di lei lo posso sentire: è lo stesso che era di moda in Svezia nel 2003, quando ci fu uno scambio culturale con molti scambi e pochissima cultura.

Il nostro entroterra verde, desaturato dall'autunno, doveva apparire loro come una savana. Mi accorsi quindi che anche il mare, per me incantevole e scintillante, appariva tale soltanto conoscendone già il carattere estivo. Le ginestre, senza fiori e contornate da brevi processioni di formiche, non erano che poveri sterpi, lunghi e proiettati verso il cielo come antenne per la telecomunicazione botanica. Gli insetti sono proprio come i profumi: li trovi anche dove non ti aspetti che ce ne siano. Inoltre, per quanto insignificanti essi siano, possiedono sempre un'identità.

I due ragazzi si scattano un selfie anche se mi sembra sempre che stiano inquadrando me, con la telecamera posteriore. Nel 1999 non avrei avuto dubbi: mi avrebbero allungato una usa e getta chiedendo una foto. Non era che un'altra piccola cosa, meritevole soltanto di essere cambiata.

Non ricordo più che odore abbia lo smog. Sono regredito ad una condizione pura, ignorante, indifferente: da qualche parte esistono problemi di cui non riesco a tollerare l'esistenza; così non ci penso e sto subito meglio. La Svezia è un luogo lontano per cui nutro un interesse remoto, come le stelle e gli orsi polari. Nella fattispecie, è di oggi la notizia che la Svezia abbia finito la propria immondizia. Un pensiero assurdo.
Santuario non è propriamente il termine con cui si è soliti descrivere una discarica, eppure per me è così. Il tempio dell'odore, il retro del mondo. Non si riesce a capire come faccia a puzzare perfino la plastica fino a che non la vedi, attonita, prendere il sole e la pioggia anno dopo anno.
Il marcio che non marcisce: sublime sublimare in puzzo.

Capitan Planet si farebbe una sega guardandomi edificare discariche come luoghi di culto. Il dio Rumenta, che la merda addenta. La dea Cloaca, di piscio ubriaca. Il dio Monnezza, di sudicia ebbrezza. Dove andremo a finire? La dea Fogna, che lo schifo agogna. Le mie unghie sono pulite, i miei polpastrelli sono puliti: tocco più spesso il sapone che la mia stessa pelle. Zygmunt Bauman cerca invano di risalire il torrente della mia memoria per dire qualcosa in merito al concetto di scarto: tiro ancora una volta lo sciacquone della mente, senza pietà. Ogni sciacquone sono oltre cinque litri di ricordi, ma io sono di quelli che non piscia facendo la doccia.

Guardo il museo, la mia banca, il caveau con cui passerò il testimone del mondo alle prossime generazioni, perseguendo il sogno labirintico secondo cui sia possibile vivere nel futuro senza mai passare dal presente: qualcuno la chiama ancora discarica.

giovedì, agosto 29, 2019

Full of wonder, braided mouth

Fuoriclasse vero. Vorrei davvero capire come sia finito qui: il reparto reggiseni ha un profumo piccante che non riconosco; che sicuramente non riconosce nemmeno lui.

È una promessa, una promessa di cosa?
Guarda i prezzi come se volesse comprarne uno, ne saggia la morbidezza benché non sappia di cosa si tratti. La promessa ritorna ancora una volta: parla dell'estate, sussurrando sbiaditi ricordi futuri del periodo successivo all'accoppiamento, indulgendo nella zona alta del naso; un punto caldo e tranquillo che grida "indipendenza". 
La solitudine con gli altri: l'elezione tra i pari. 
Ecco: profumo di adulazione? 
No: sono solo reggiseni, indumenti come tanti altri.


Mi siedo tre camerini dopo il suo, in attesa del momento giusto. Povero coniglio, fino a sei giorni fa non avevi nemmeno idea di come fosse fatto un reggiseno o a cosa servisse. Mi ricordo di quando prendevo tra le mani i tuoi fratelli e le tue sorelle per accarezzarli con le mie mani di metallo.
Outfit di oggi: guanti neri made in Japan, comprati in questo stesso centro commerciale. 
Non ti ho mai accarezzato: forse, anche per questo, il professore scelse proprio te per l'esperimento. Così avrei potuto cacciarti senza pietà quando saresti scappato.

Quale natura ti guida alla fuga? Quella di uomo, o quella di coniglio?
Ti immagino tastare i reggiseni di fronte allo specchio: incantato dai loro colori pastello, tenui e trasognati; sbalordito dal pizzo fresco e regolare come un mandala di schiuma di mare; intimorito dalla severa struttura dei ferretti, nascosti come lame nel fodero.
Sto per fare la mia mossa, ma uno dei camerini tra noi viene improvvisamente occupato da due ragazze straniere. Rinuncio: troppi testimoni. 

Fino a pochi giorni fa sgranocchiavi carote ed io dovevo solo preoccuparmi che fossero abbastanza. Come vola il tempo: prima che potessi rendermene conto sei diventato un fuoriclasse. Il professore sa vederci lungo, anche quando sembra soltanto fissare il vuoto. Devo riportarti da lui, sull'isola, prima che tu faccia qualche casino. Esaminare dei reggiseni non è un casino, se ti limiti a questo, ma non posso rischiare.

Si apre la porta.
È occupato?
No, no, certamente, prego: esco.
Fingo di valutare l'acquisto di una maglietta prima di tornare al tuo camerino per aprirlo: sparito. Mi sono distratto ancora una volta.

Deve essere colpa di questo profumo: dice così tante cose che quasi non mi sento pensare.

lunedì, agosto 26, 2019

Welcome back

Un caffè per i tuoi pensieri, purché siano impuri. Throwback thursday: nuovo palco per una vecchia malinconia irrisolta. La tara tramandata da genitore a generato del compiacersi per le scelte non fatte.


Mio nonno avrebbe potuto comprare una casa a Varigotti, in tempo di guerra. Qualsiasi cosa fosse la guerra. Ho un ricordo non mio a cui tornare: una mano tasta il cratere di un camminamento in calcestruzzo, dipinto di rosso come a simboleggiare una ferita sulla pietra. Un murales con scritto "sfarzo" e una riga di lattine di Sprite sbiancate dal sole.

Throwback ad oggi: fallito. Sono bloccato nel 1943, durante il bombardamento del porto di Ancona. Che palle la guerra, penso: ma la mia opinione non conta. Forse è proprio questa, la guerra: la tua opinione non conta.

Allora perché non sperare in una guerra nuova, se ci siamo stufati di questa?
Previsioni del tempo per domani: non pervenute. Se gli americani lo volessero, qualsiasi cosa siano questi "americani", non avremmo più il GPS nel giro di venti secondi.
Pegaso, ti vedo ferito e stanco. Già quando eri un feto avevo dubitato che le tue ali potessero portarti nel cielo. Eppure, hai volato: eccoti sfrecciare tra le nubi in fiamme. Ricordi di bombardamenti vissuti in prima persona: non pervenuti.

Throwback alla storia di mio nonno: dall'altro ramo della famiglia, una bomba era atterrata sul letto lasciato malvolentieri dopo innumerevoli falsi allarmi. Donnie Darko ma senza il patema psicologico. Anzi, chi può dirlo?

They made me do it. C'era quella storia del filosofo che aveva intervistato il pilota dell'Enola Gay.
They made me do it. Mentre Saddam sorride sotto i baffi tra le pagine di qualche sussidiario bocciato dalla commissione per essersi addentrato oltre due capoversi negli anni di piombo.
They made me do it. Mentre le forze dell'ordine indicano un kalashnikov rinvenuto in un bidone dell'immondizia, prima che Brokeback Mountain stimolasse una nuova linea di vacanze in campeggio, per la gioia dei tour operator.
They made me do it. I tour operator: l'unica categoria in questo mondo di solitudine che si rifiuti di ammettere di essersi estinta, tanto tempo fa, prima ancora della propria invenzione.
They made me do it. Odio questa narrativa di elenchi, come se si facesse la spesa delle emozioni tra i pannolini e i croissant.
They made me do it, con le pubblicità progresso che cercano di farti credere che la peer pressure non sia più forte del libero arbitrio.
They made me do it: quando Greta geme di piacere mentre ricondividiamo le foto dei giaguari in fiamme.
They made me do it: mentre il disastro della British Petroleum viene dimenticato perfino dai pellicani che lo hanno vissuto.
They made me do it: con le serpentiniti di Cogoleto tinte dal greggio.
They made me do it: mentre cerco di rincorrere invano un pensiero su questo touchscreen prodotto in Cina, reso torbido dall'alcol e dal cibo da strada (io, non lo schermo), dalla noia e dai social network (il telefono, non io).

Intravedo Gerri Scotti tutto sudato che mi chiede chi incolpare per un milione di euro: me stesso o gli altri? Just do it.
Me stesso, rispondo, mentre la pira di banconote euroconformi vagamente ispirate al monopoli si incendia.
Me stesso, imploro, mentre le pagine dei fumetti orientali che non ho mai pagato si riducono in cenere e lapilli.
Me stesso, grido, mentre i fumi delle VHS dei film est europei che ho piratato mi strangolano senza pietà.

La guerra, dubito possa esistere qualcosa di tanto assurdo: qui non ci siamo che noi.

Post scriptum: La settimana prossima andremo al mare a Varigotti: save the date, che in russo si traduce più o meno con "sokhranit' datu".

Saremo imprigionati in una realtà alternativa in cui la guerra fredda è stata vinta appunto dai russi. Sarà un sogno con grandi statue dai visi severi. Tutti guarderemo Marte chiamandolo solo "il pianeta rosso" e berremo caffè da grandi samovar fumanti, mentre il telegiornale mostrerà le foto della sonda Soyuz X.

Guardami negli occhi: sicuramente starò facendo pensieri impuri. Finalmente ci sarà l'energia nucleare anche in Italia, qualsiasi cosa sia questa "Italia". Le auto ad idrogeno caldamente consigliate dal partito avranno nomi come Velocità ed Ardore, ma sembrerà davvero una cosa normale: tanto a Varigotti parcheggiare prima di settembre è impossibile anche in questo sogno a metà tra lo scherzo e la preghiera.

Non so quale sia la casa, non ricordo oppure non voglio ricordarlo. Mi verso un'ultima vodka prima di prendere ancora il largo da fermo: è bello essere tornati.

venerdì, maggio 10, 2019

E' non è permanente impermanenza