domenica, novembre 24, 2019

Orange country

Aveva appena smesso di piovere.
Lisa guardò le lancette, senza leggerle davvero: qualsiasi ora fosse, mancava ancora troppo tempo al tramonto.
Sarebbe dovuta salire al settimo piano, intervistare la signora Tapperquach, verificare le funzionalità della casa, accertarsi del suo stato di salute ed allora, soltanto allora, avrebbe potuto girare i tacchi e tornare a casa a fare le sue cose.

Le "sue cose" di solito consistevano nel mettere qualcosa di estremamente impegnato alla televisione, per poi andarsene nel resto della casa a fare tutt'altro.
Era una cosa di cui non riusciva a vergognarsi. Perché avrebbe dovuto? Lo schermo era solo un elettrodomestico come un altro, collegato all'Algoritmo come ogni altro, che faceva la sua funzione come tutti gli altri: indipendentemente dalla presenza o meno di un pubblico per la sua esibizione.
Era felice di poter rendere orgoglioso l'Algoritmo: orgoglioso di lei, dell'elevato livello culturale della popolazione che stava così saggiamente guidando, dei valori che insieme andavano edificando, della visione beata del futuro che potevano contemplare dall'alto del loro contributo.
Lisa non credeva di essere un impostore: capiva che qualcuno avrebbe potuto travisarla per tale, ma non sentiva di esserlo. Aveva un sincero interesse per quei temi così elevati; solo non aveva voglia di occuparsene davvero.


Una notifica chiese timidamente: stai ancora ascoltando l'audiolibro "La dottrina dei costumi" di Christian Garve? 
Certo, rispose Lisa, mentre il portinaio la ragguagliava sugli ultimi spostamenti del palazzo: il figlio della signora Tapperquach continuava a non farsi vedere. "Meglio così", fu il suo candido commento.

La porta si aprì a fatica: Terence, il cincillà della signora Tapperquach, aveva fatto cadere in qualche modo l'appendiabiti proprio contro la porta. Doveva essere stato il suo ultimo gesto: Lisa lo trovò riverso poco oltre, morto.
Tappandosi il naso, chiamò a gran voce la vecchia, superando di corsa il piccolo corpo abbandonato contro il tubo freddo del radiatore.
Si levò una voce un tempo squillante, con un singolare accento straniero, come se la demenza della vecchiaia le avesse tolto, insieme alle sue facoltà, anche le proprie origini.
- Sei tu, Fanny?
Al fianco della poltrona su cui era sdraiata c'era una pila di crocchette di riso soffiato, evidentemente depositate a terra per nutrire una pantofola beige che doveva aver confuso con Terence. Lisa era disgustata.
- Mi chiamo Lisa, quante volte devo ripeterlo?
Cambiato canale ed abbassato il volume, si avvicinò alla poltrona della vecchia.
- Deve farsi una doccia signora, alla svelta. Questo posto è un disastro.
- Io...non riesco da sola.
La signora sorrise, come per scusarsi, così Lisa comprese il motivo di quello strano accento: non aveva la dentiera.
- Porca puttana, dove cazzo è finita la dentiera?
Il verbale prevedeva che venisse fatta una foto della dentiera e di altri beni di prima necessità. Aveva tutto l'occorrente nella borsa, tranne la dentiera: troppo specifica, troppo costosa. Non aveva preparato quella borsa con l'esplicito intento di frodare l'Algoritmo e la signora Tapperquach, quanto per risparmiarsi la fatica di trovare tutto quanto in quel casino e nelle altre quindici case sotto la sua responsabilità. Così, semplicemente, avrebbe fatto prima.

Lo schermo di un altro tablet si risvegliò:
Stai ancora guardando il video "Spinoza visto da Karl Marx"?
Certamente.

Corse in cucina, scavalcando pile di vestiti sporchi e scorrendo rapidamente la propria scheda di valutazione sul pad della signora Tapperquach: ottimo, ottimo, sì, assolutamente, molto d'accordo, eccellente, buono, molto buono. La lista dei meriti che Lisa si doveva attribuire era interminabile e questo la scocciava molto: aveva ancora troppo da fare prima di potersi dedicare alle sue cose.

L'orologio cercò invano di distrarla:
Stai ancora ascoltando "Dizionario filosofico, di Voltaire"?
Assolutamente.

Uno dei fornelli era acceso e c'era un uovo spiaccicato a terra, davanti al frigorifero.
Che schifo, pensò, cercando la dentiera tra le posate ammonticchiate nel ripiano sbagliato della lavastoviglie: non era nemmeno laggiù.
Dove poteva essere finita?
La lavatrice, caricata con troppo detersivo, aveva l'oblò coperto di schiuma: impossibile dire cosa ci fosse dentro senza aprirla. Spalancato lo sportello, un odore equivoco di acqua stagnante e lavanda si sparse per la cucina: da quanto tempo era stata fatta, quella lavatrice? Dentro c'era di tutto: prese un forchettone e cominciò ad estrarre i vestiti putridi, gettandoli a terra con stizza ogni volta che questi rivelavano di non nascondere la dentiera.
- Fanny? Che cosa stai facendo?
La signora Tapperquach cercò di chiamarla.
- Resti là signora. Faccio una cosa e arrivo.

Il bagno. Lisa non avrebbe voluto entrarci, ma la dentiera doveva per forza essere là. Pregò di trovarla subito nel bicchiere sotto allo specchio, ma le sue preghiere non furono ascoltate.
Si avvicinò al gabinetto tremando di rabbia: la dentiera era là, incastrata sul fondo, sommersa dal piscio dorato e dai residui marcescenti di carta igienica mista a feci.
Impugnò il forchettone tenendo l'altra mano davanti alla bocca, per impedire ai conati di prendere il sopravvento. Usando il forchettone come una pinza, bloccò la dentiera contro la ceramica, per poi tirare lo sciacquone una, due, tre, cinque volte. Prese un asciugamano ed usandolo come un guanto tirò fuori la dentiera dalla sua prigione. In tutta fretta la depositò nel bicchiere e scattò la foto richiesta, scappando finalmente dal bagno, dall'appartamento della signora Tapperquach e da quello stramaledetto palazzo.

Tanti anni prima, Lisa era stata una bambina graziosa, sensibile e attenta.
Lo era sicuramente ancora, nei riguardi di alcune entità accuratamente selezionate: sé stessa, i suoi cari, cose così.
Giunta alle soglie della vecchiaia, un dottore mandato dall'Algoritmo le annunciò che avrebbe probabilmente perso la vista. Sarebbe diventata una disabile, dipendente dagli altri, senza nessuno che la proteggesse. Lisa non avrebbe mai accettato un simile epilogo: non si sarebbe mai abbandonata alle cure disattente ed egoiste di qualche giovinastro mandato dall'Algoritmo che si sarebbe facilmente approfittato della sua condizione dandole il minimo indispensabile, ingrassando le proprie tasche ed il proprio karma con recensioni mendaci.
No: sarebbe fuggita. Avrebbe abbandonato l'Algoritmo in favore di qualche comunità che ancora desse valore alla condizione umana ed alla solidarietà tra le persone.
Una sua lontana conoscenza aveva fondato proprio una di queste comuni nel deserto.
La intrigava l'idea di vivere in un paesaggio nuovo, alieno, anche se la sua vista in rapido peggioramento non le avrebbe dato modo di ammirarlo. Da piccola, una sera, aveva sognato proprio di sorvolare un deserto: le era sembrato tale e quale ad un campo innevato tinto come d'arancio; l'unica differenza era che non nevicava.

domenica, novembre 17, 2019

Heaviest metal

Quando Curzio entrò nella stazione di servizio nessuno si girò.
Soltanto un tizio con un berretto sudicio, come rispondendo al suo ingresso, ruttò fuori tempo rispetto alla canzone che la radio stava passando.
Curzio si avvicinò al bancone ordinando uno scotch e soda, per darsi un'aria da duro: sembrò funzionare.
- Stai cercando un passaggio, amico?
L'uomo barbuto accanto a lui si girò, rivolgendogli un ghigno annoiato.
- Sì. Sì esattamente. Cerco qualcuno che mi porti fino all'Incrocio 9.
L'altro si lisciò la barba, come volendo dare ad intendere che ci stesse pensando su ma, prima che potesse rispondere, una grande figura scura si impose fra loro caracollando.
- Ma che cazzo fai? Qui se ti serve un passaggio devi chiedere di me, hai capito?
Ringhiando, pronunciò le ultime parole verso il barbuto, facendogli tremare la barba.
- Certo Mercury, sicuro. Lo avrei mandato da te, amico.
Mercury fissò Curzio con l'unico occhio buono, mentre l'orbita lattiginosa dell'altro dondolava minacciosamente come se stesse cercando qualcosa.
- E perché? Sentiamo.
- Per...perché sei il migliore del blocco D.
Mercury rise. Avrebbe avuto bisogno di schiarirsi la voce, ma non lo fece: riprese invece a parlare producendo un fastidiosissimo gorgoglio che arrivava dalle profondità della sua gola.
- Vieni al mio tavolo, ragazzino. E lascia sul bancone quella roba che hai ordinato: qui bisogna restare idratati, il deserto non perdona. Tosca, preparagli un frullato come il mio.
La barista grugnì, mentre Mercury si allontanava zoppicando con Curzio al seguito.


- E' l'Algoritmo a mandarti all'Incrocio 9?
- Veramente no, è una specie di mia iniziativa.
- Immaginavo fosse una cosa del genere. Sembri davvero uno sprovveduto.
Mercury guardò l'ora, perdendosi nei suoi ragionamenti.
- Facciamo così: ora finisci il tuo frullato e poi vatti a comprare una coperta, una buona, allo spaccio. Digli che ti mando io. Ti ho già detto che il deserto non perdona? Ne parleremo meglio in cabina. Parleremo meglio di tutto, in cabina.
Si guardò intorno con circospezione, come cercando tra gli avventori - che non erano cambiati - qualche faccia nemica da riempire di botte.
- Poi raggiungimi al carro. Il mio è quello con scritto "Mercury".
Sorrise per un momento come un bambino orgoglioso, facendo balenare gli incisivi d'oro nella penombra del locale, prima di aggiungere tronfio: ovviamente.

Era rimasta solo una coperta ma l'uomo dello spaccio disse che a Mercury sarebbe andata bene, come se Curzio non la stesse nemmeno comprando per sé. Esterno ed interno erano rivestiti da sottili placche metalliche, non più grandi di una moneta. I due lati non differivano soltanto per il colore, ma anche per l'effetto: la parte dorata serviva per trattenere il calore all'interno, mentre quella argentata lo avrebbe respinto. Le rade maglie della coperta la rendevano semirigida e pesante, come un'armatura. Curzio, ripiegandola secondo le istruzioni del negoziante, sentì di aver ricevuto un vero equipaggiamento, qualcosa che lo riportava alle gesta eroiche dei cavalieri erranti di cui aveva sentito raccontare da bambino. Fece ritorno da Mercury, trovando senza problemi il grande autoarticolato illuminato come una giostra .

- Sai ragazzino, tu mi sei simpatico.
- Grazie Mercury, anche tu mi sei simpatico.
- Molto bene. Allora ti racconterò una cosa: vedi, qui...
Fece un gesto ampio con la mano che non stava reggendo il volante, tenendo il dorso verso l'alto, come a voler toccare i profili delle colline illuminati dalla luna che stava sorgendo.
-...tanto, tantissimo tempo fa, non c'era questo deserto, ma paludi. Paludi radioattive, velenose. Al mondo esisteva un animale incredibile, un piccolo essere succhiasangue che viveva proprio in posti come questo. Hai idea di come si chiamasse?
- Non saprei.
- Ci credo. Neanche io lo sapevo. Ma una volta ho dato uno strappo ad un professore di biologia che mi ha raccontato questa storia. E' incredibile come certe cose sembrino ovvie una volta che le sai, ma il tuo stupore mi ricorda che niente è veramente ovvio. Per questo, forse, mi piace raccontare storie.
- Capisco.
- Insomma, questo animale si chiamava "zanzara" ed era un'insetto. Non solo si nutriva di sangue, anche e soprattuto umano, ma si riproduceva a miliardi ogni stagione e diffondeva ogni genere di malattia.
- Anche mortali?
Mercury annuì gravemente.
- Sì: soprattutto malattie mortali. Un bel giorno, l'Algoritmo decise finalmente di finirla ed eliminò le zanzare dalla faccia della terra. Ora non esistono più tranne, pare, in qualche laboratorio perso tra i ghiacci perenni del grande sud.
- Che storia incredibile.
- Già, ma non era qui che volevo arrivare. Chi uccise le zanzare? L'Algoritmo, oppure le persone che miscelarono i pesticidi e li sparsero sulle paludi? Forse fu lo scienziato che ne isolò il ceppo genetico o come si chiama? E se fu lui, come e quanto venne istruito dall'Algoritmo a farlo? E' una cosa su cui dovresti riflettere. Io, almeno, ci ho riflettuto molto.
- Hai ragione. Avevo già sentito una cosa simile, in un certo senso.
L'occhio cieco di Mercury luccicò alla luce del cruscotto che li avvertiva di aver superato l'Incrocio 3.
- Racconta.
- Pare che quando l'Algoritmo fu lanciato, non tutti furono contattati direttamente. L'Algoritmo avrebbe potuto scrivere a ciascuno, ma molti vennero istruiti attraverso altre persone, come in una catena di fiducia. L'Algoritmo sapeva chi lo avrebbe ascoltato e chi avrebbe ascoltato coloro che egli aveva contattato. Pazientemente, giorno dopo giorno, arrivò a guidarci come ci guida oggi.
Mercury annuì, d'accordo con quanto gli veniva raccontato.
- Capisco quello che vuoi dire: "Roma non fu distrutta in un giorno".
Curzio esitò, incerto se correggere l'autista: forse il detto era davvero così.

sabato, novembre 16, 2019

Blue grass

Ambra siede sulla ringhiera di un vecchio letto trovata chissà dove. Alle sue spalle, un telo verde si contrappone all'imminente tramonto. Altrove, in un'ipotetica sessione di post-produzione, il telo potrebbe diventare un altro luogo, un altro tempo, qualsiasi altra cosa. Non qui.

Delio guarda Ambra con preoccupazione. Alle sue spalle, una tavola con quattro tazze colme di liquido fumante. Intorno: il deserto.
- Sono preoccupato per quella ragazzina. E' sempre più grande e sempre più sola.
E' ovvio che Delio debba ancora dire qualcosa, ma Lisa interviene per dare la sua opinione. Anche se non è una delle Fondatrici, Lisa è comunque la più anziana.
- La preoccupazione crea falsi bisogni; i falsi bisogni creano falso lavoro; il falso lavoro crea nuove preoccupazioni.
Delio fa una faccia come per dire "lo sappiamo", ma Lisa non può vederlo perché è cieca. Forse, pensa Delio, per questo motivo interrompe sempre tutti.
- Amico Delio, Lisa ha ragione: a che pro nuove nascite?
- Una nuova nascita sarebbe cosa buona, ma noi non facciamo bambini. Noi li attendiamo con gioia, sono due cose molto diverse.
Diletta e Luce: due brave ragazze che credono nella comune.
- Fare un bambino sarebbe...
Violet comincia a dire qualcosa, ma Lisa interrompe anche lei:
- "Fare", diceva la Prima Fondatrice, è il primo passo verso la confusione. "Subire" è la vera essenza.
Delio guarda Violet sconsolato.
- Violet, prego: stavi dicendo?
- Fare un bambino sarebbe utile per la piccola Ambra, tuttavia...
Suona la campana ad interromperla nuovamente: tutti finiscono in fretta le loro bevande per poi avviarsi ciascuno alle proprie attività. Violet si occupa di raccogliere le tazze ed Ambra la raggiunge.
- Vai al fiume a lavare?
Violet sorride: è ovvio, perché tante domande?


Delio guarda la comune dall'alto del pendio. Cerca sempre di essere critico, nei confronti di sé stesso e della comunità, ma spesso si rivela un compito troppo difficile. Così si abbandona alla tristezza, alla commozione, al senso di pietà del cuore per la condizione umana. Il lettore mp3 fa la sua parte, pompandogli nelle orecchie il plasma misterioso della musica. Troppe sensazioni in così poco tempo per poterle processare senza passare ad un livello inferiore di consapevolezza: regredire per lasciare che la meraviglia ti possieda. Le canzoni ormai sono sempre le stesse, ma Delio attinge a quella reliquia del futuro tanto raramente da non doversene preoccupare.

C'è qualcuno alle sue spalle: è Violet. Delio ripone frettolosamente cuffie e lettore nella tasca della camicia.
- Ah, mi hai trovato. E Ambra, dov'è?
- Alla comune, con le altre. Quindi è qui che vieni a rifugiarti. Credevo stessi dando una mano con il raccolto.
- Eh, il raccolto. Credimi, io ne ho raccolte di cose: non succederà niente se oggi mi occuperò d'altro.
Violet esamina il panorama, cercando i suoi punti di riferimento: la sala principale, il telo verde, il pozzo, la pala eolica. Ogni luogo della comune è rappresentato da un mosaico dei momenti che lo riguarda: accatastare sacchi di sabbia intorno al trasformatore prima dell'alluvione, festeggiare la notte di mezza estate all'ombra del telo verde, pompare l'acqua su dal pozzo nelle mattine gelate, prima dell'alba.

E' Delio ad interrompere il silenzio:
- Sai cosa facevano qui, prima che l'Algoritmo abbandonasse questo posto?
- Non ne ho idea.
Violet si siede.
- Nulla, assolutamente nulla. Solo una volta, una troupe venne qui per girare una scena di un film e lasciò il telo verde nella fretta di mettere il resto dell'attrezzatura al riparo da un temporale.
- E' strano.
- Probabilmente il posto è contaminato o qualcosa del genere. Non scherzo. L'Algoritmo non fa niente senza un motivo. D'altronde, a noi cosa può importare di vivere un anno di più o uno di meno? Importa vivere come vogliamo, giusto? Questa è la nostra scelta.
Violet non è sicura di essere d'accordo, ma si trattiene dal rispondere. Forse, nemmeno Delio ne è molto sicuro.
- Lo so che ti chiedo cose di cui non hai un'opinione. Neanche io ce l'avevo e chissà, magari anche la mia cambierà ancora. Ma le mie non sono vere domande, solo un modo di esprimersi. Di fare delle considerazioni.
- Delio, tu cosa facevi, prima di venire qui?
Il vecchio sorride, guardando Violet di sottecchi.
- Ero giovane. Sul serio. L'Algoritmo sa cosa ci rende poveri e tristi meglio di noi. Ero giovane, fino a quando non sono venuto qui e ho capito di essere vecchio. L'Algoritmo ti mantiene come, come chiuso all'interno di un vagone: viaggi solo con persone e con eventi alla tua portata. Quando si stabilisce un rapporto, l'Algoritmo di solito cerca di mantenerlo. In fondo, credo voglia solo il nostro bene. Se ami una persona, l'Algoritmo cercherà di tenervi insieme, se qualcuno per te è il migliore, l'Algoritmo lo manterrà in quella posizione relativa. Per questo dico che prima ero giovane. Non mi ero mai accorto di non esserlo più.
Violet si schiarisce la voce.
- Io ero venuta per dirti una cosa: me ne vado.
- Lo immaginavo. Ritornerai in città.
- No, non voglio ritornare dall'Algoritmo.
- Dove pensi di andare, allora? Quante comunità credi esistano, come la nostra? Siamo un'eccezione.
La voce di Delio non è priva di risentimento.
- Non lo so. Voglio solo andare via. Non voglio ritornare dall'Algoritmo ma forse è quello che succederà. Non lo so.
- Mancherai molto alla piccola Ambra...e a tutti noi.
- Lo so. Anche voi mi mancherete.
- Mi piacerebbe venire con te, Violet; ma ho trovato la mia verità e non sono ancora pronto per vederla cambiare. Forse non lo sarò mai. Per adesso rimarrò in questo deserto sperando di aver fatto la scelta giusta.
Lei nota che, per quanto vecchio, continua a ragionare come se avesse tutto il tempo del mondo.
- E' sicuramente la scelta giusta.

Violet si alza e Delio la segue con lo sguardo. Dove andrà? A cercare cosa? Forse fugge da qualcuno. Da giovane avrebbe lavorato, sulla base di queste premesse, per cercare di dare un'ordine alle cose. Avrebbe creato una, dieci storie che giustificassero quell'evento, fino a trovare quello giusto. Ma si trattava del tempo in cui era giovane e, per quanto potessero essere soltanto cinque anni prima, a Delio sembra un'infinità.
Una volta, al tempo in cui era solito "chiacchierare" con l'Algoritmo, aveva teorizzato che il tempo esistesse per gli esseri umani soltanto per via del giorno e della notte: l'unica ripetizione talmente evidente e precisa da richiedere una misurazione. Ogni altro cambiamento come l'invecchiamento, la gravidanza, lo scorrere delle stagioni, la crescita delle piante, era troppo fine per essere esaminato dalla sensibilità umana: tutte cose che sarebbero semplicemente successe senza correlazione con lo scorrere del tempo.
Il sole stava ormai tramontando: domani sarebbe sorto ancora una volta e Violet non ci sarebbe più stata.

venerdì, novembre 08, 2019

...stone finish

Stava arrivando l'ultimo temporale della stagione, ma Diletta e Luce non potevano certo saperlo.
Facce storte guardavano senza interesse il mondo appena sveglio passare fuori dai finestrini del tram su cui si erano imbarcate quasi un'ora prima.
Ultima stazione prima del capolinea: Diletta strinse la spalla della compagna, invitandola a scendere.
L'insegna del Bagel Boomer era ancora spenta. Luce esitò, ma Diletta le fece un cenno rassicurante.


- Mi metteranno sulla sedia elettrica.
La sera prima Luce piangeva, mentre l'amica le carezzava i capelli, strette nella stessa cuccetta.
- Nessuno ti farà niente. Stai tranquilla. Domani ti porto a mangiare i bagel. Conosco un posto.

La porta di ingresso era ancora lucchettata, ma Diletta si diresse con sicurezza sul retro. Un ragazzo qualche anno più giovane di loro stava fumando una sigaretta, accucciato sulla soglia.
- Ehilà.
- Ehi...apriamo tra dieci minuti, ma se volete finisco la sigaretta e vi faccio entrare prima.
- Grazie mille. Ehi, scusami: c'è Sean oggi?
Il ragazzo buttò la sigaretta in una pozzanghera, trattenendo il fumo nei polmoni per qualche istante mentre il freddo del mattino cominciava a rendere insensibile la punta del naso di Luce.
- No.
Si alzò, sparendo all'interno del negozio mentre faceva loro segno di andare dall'entrata principale.

L'ingresso si aprì.
- Sean non c'è. Mi dispiace. Voglio dire, non c'è proprio più: si è trasferito.
Guardava alternativamente l'una e l'altra, indeciso su quale delle due trovasse più carina. Forse nessuna. Erano in viaggio da trentasei ore.
- Trasferito dove?
Il forno cominciò a suonare.
- Entrate pure. Non fa niente, tanto dovevo aprire comunque. Sedetevi, io arrivo subito.

Cominciarono a sfogliare distrattamente i menù.
- Io prendevo sempre questo. Ma qui ordinano tutti questo qua. Ordinavano, almeno.
Luce annuì.
- Sembra buono.
- Sono molto buoni. E' stato bello lavorare qui...ormai sembra davvero una vita fa.

- E' tornato da sua madre. Al confine della città. Lavora tipo in una fabbrica di pneumatici.
Gli occhi di Diletta si riempirono di lacrime mentre Luce continuava a guardarsi intorno.
- Volete mica un bagel? Vi faccio un bagel, offre la casa. Anzi, ve ne faccio due. Ok?
- Grazie...
- Tod, mi chiamo Tod.
- Grazie, Tod. Io prendo un Mariner senza cipolle e tu?
- Quello che dice Tod andrà benissimo, grazie.
- Ok, arrivo subito allora.
Ma rimase sulla soglia, incerto.
- Scusate...
- Si?
- Non è che tu ti chiami Diletta per caso? Magari mi sbaglio.
- Sì, si esatto. Ma...come hai fatto?
- Ho visto la tua foto sulla parete dei dipendenti passati. Cioè, in realtà la vedo di continuo. Ci passo un sacco di tempo davanti perché è proprio sopra al lavandino. Grande, mi sembrava una faccia già vista: bentornata al Bagel Boomer.

Sorrisero, mentre Tod andava a preparare i bagel.

- Mi manderanno sulla sedia elettrica.
- Luce, ora basta con questa storia. Non ti faranno proprio niente.
L'autobus traballava nel buio della notte precedente.
Diletta l'abbracciò, parlando direttamente al suo orecchio senza più guardarla negli occhi.
- Ora, qualsiasi cosa tu abbia fatto, raccontami perché lo hai fatto. Non voglio sapere cosa, solo perché.

Il responsabile del Ninfea, il signor R., le aveva chiesto di trattenersi per due parole dopo il turno. Quando era andata a parlargli lui era occupato, al telefono. Le fece cenno di passare più tardi e così andò ad allenarsi in palestra.
Quando tornò nel suo ufficio in giro non c'era più nessuno. R. stava lasciando l'ufficio: si era fatto tardi e stava andando a mangiare qualcosa. Decisero di andare insieme a mangiare in un fastfood all'incrocio del benzinaio. Non parlarono di lavoro ma solo del tempo, di sport, dell'Algoritmo, della vita nell'hotel. Prima di essere mandato a gestire il Ninfea, R. aveva fatto il pompiere. Aveva un sacco di aneddoti divertenti sulla vita della caserma. Si fecero quattro risate e finito il panino tornarono all'albergo.
R. la fece accomodare nel suo ufficio mentre si serviva un digestivo. Una cosa speziata e ruvida che avrebbe potuto fare e bere soltanto lui.
All'inizio prese le cose davvero molto alla lontana. Sembrava quasi un colloquio per avere il posto che Luce già ricopriva. R. volle ripercorrere tutte le tappe della selezione: i test, le domande e le risposte che riusciva a ricordare, l'intervista con l'Algoritmo. Le chiese se avesse mai fatto rispondere qualcun altro al suo posto.
A quel punto Luce gli disse di no chiedendo di sapere il perché di tutte quelle domande. Si sentiva offesa e screditata. Si reputava una brava lavoratrice e voleva sapere dove volesse andare a parare.
- Tu non hai capito che tipo di hotel è questo, vero? Siamo l'unico hotel fuori città. Ti dice niente?
R. non era agressivo. Le sue parole lo erano, ma non il suo tono. Luce non rispose.
- Questo è un casino, Luce. Un bordello, un luogo di prostituzione. Sesso in cambio di denaro. Voi siete le cameriere che si scopano i clienti. Voi. Intendo dire, tutte le ragazze tranne te. Hai notato che il novanta per cento dei clienti sono maschi, single? Io non avevo mai gestito un luogo così prima d'ora ma vedo che funziona. Quindi posso dire con convinzione che credo nell'Algoritmo e so che manda sempre la gente giusta nel posto giusto. E' così per me ed è così per tutte le altre ragazze. Tutto ha senso, di solito. Ma tu ormai è quasi un anno che sei qui e vedo che non partecipi al gioco. Ti dai da fare, ma il motivo per cui sei qui, per cui lavori qui, è un altro e tu non lo stai rispettando. Mi segui? L'Algoritmo non ti avrebbe mai mandata qui se questo posto non avesse fatto per te, eppure sembri veramente arrivare da un altro pianeta, non vedere le cose per quello che sono ed essere l'unica a non rendersene conto.

Paralizzata sulla sedia, Luce non sapeva da dove incominciare. Si limitò a fissare gli occhiali di R., posati sulla scrivania.

- Ti farò vedere una cosa. Non dovrei farlo, perché teoricamente significherebbe contaminare i tuoi rapporti con l'Algoritmo, ma se non capisci questa sera dovrò comunque contattare il Sistema di Gestione domani mattina, per cercare di capire cosa sia andato storto e perché tu sia finita proprio qui come, come un pesce fuor d'acqua. Sarebbe una cosa penosa, per me e per te. Verremmo sottoposti a nuovi test e probabilmente saremmo ricollocati entrambi. Siccome le cose vanno bene non vorrei arrivare a tanto, per cui ti faccio vedere questa cosa:

Aprì la busta che teneva in mano ormai da qualche minuto. Era una trasmissione ufficiale dell'Algoritmo, protocollata. Controluce, vide il suo nome stampato in grassetto sul lato che R. si accingeva a leggerle.

- Luce H. White, ventisei anni, sentimentalmente libera e socialmente disinibita. Predisposta alla cura degli ambienti sociali e della persona. Inclinazioni sessuali chiare e definite, di mentalità aperta ed altamente disponibile all'incontro sessuale occasionale a fini di lucro. Sensibile, attenta, decisa, amante dei gatti eccetera eccetera eccetera. Il resto non importa perché in questo posto conta solo una frase: "disponibile all'incontro sessuale occasionale a fini di lucro". Altamente disponibile, Luce. Lo dice l'Algoritmo e quindi lo dici anche tu: come mai sembra che non giochiamo allo stesso gioco?

- Mi manderanno sulla sedia elettrica Diletta, mi uccideranno perché non l'ho data a quattro vecchi bavosi di merda. Anzi, perché avrei dovuto farlo e non l'ho fatto.
- No, non è quello il motivo. Tu non sei così. Non come ti ha descritta. Ci deve essere qualcosa che non funziona.
- Mi manderanno sulla sedia elettrica: ho ammazzato un tizio perché non riuscivo a sopportare di sentirmi dire che non fossi fedele a me stessa. Ma chi ha ragione, Diletta? Io, oppure l'Algoritmo?

giovedì, novembre 07, 2019

Rock start...

Erano sorelle.
Per lo meno, questo era quello che pensava ogni persona che le vedesse insieme.
Sorelle nate da madri diverse e padri diversi. Sorelle con diversi fratelli e diverse sorelle.
Il termine sorella doveva aver cambiato significato, almeno per loro.
Sorelle nella sorte: questo sì, di sicuro.


Storditi dalla notte passata affacciati sulla tangenziale, gli avventori che si recavano nella hall del Brolnard Hotel per fare colazione avevano più di un buon motivo, oltre alla fame ed al cattivo riposo, per omettere ogni dettaglio evidente ai sensi - diversi capelli, occhi, carattere e profumo - e chiedersi, a volte perfino ad alta voce, se Luce e Diletta fossero sorelle.
Loro, sorridendo, rispondevano sempre chiedendo se preferissero latte caldo o caffè.
Ma la quiete vita del Brolnard le aveva stufate. Fecero i loro conti e si decisero a chiedere all'Algoritmo un trasferimento comune.
Erano giovani e pronte a vivere la vita così come gli sarebbe arrivata.
Completato ogni test che fu loro sottoposto, rassegnarono ogni ulteriore speranza al fato in attesa di un responso.

Non tardò ad arrivare: furono destinate ad est, nei pressi di una città di crescente importanza. Il bando descriveva l'hotel in cui avrebbero lavorato come "desideroso di farsi un nome". Sembrava il luogo giusto dove mettere a frutto le loro aspirazioni.
Diletta non era troppo convinta dalla destinazione. L'est confliggeva con la sua idea di sicurezza: il clima appiccicoso, l'accento, il tipo di affari che si conduceva in quelle zone. Tutto risuonava in maniera grave e minacciosa, come se si fosse esaminato il suono del futuro dall'imbocco di una buia caverna piena di animali muti e sconosciuti: una cacofonica eco di promesso terrore.
Anche Luce era preoccupata, ma non avrebbe mai permesso di darlo a vedere.
Partirono con l'autobus, salutando con una scrollata di spalle quel luogo di cui presto avrebbero ricordato a malapena il nome. Nel suo continuo rimescolamento, l'Algoritmo non lasciava che le persone si attaccassero troppo ai luoghi, tanto più se questi erano luoghi davvero poco meritevoli di ricevere l'affetto di qualcuno.
Eppure, pensava Diletta incapace di prendere sonno nella sua cuccetta, c'erano delle zone di quel vicinato che avrebbe voluto ricordare. Se non altro, avrebbe di certo conservato quei momenti in cui aveva sentito che vivere significava qualcosa. Immaginava quel significato come un cercare, o meglio un aspettare con pazienza, l'arrivo di qualcosa di sacro. Una sera d'estate, mentre buttava l'immondizia, aveva notato che il basso gracidare dei rospi si era interrotto e, volgendo istintivamente lo sguardo al cielo, aveva ammirato tre aironi volare senza sforzo nel plenilunio.

Prima di lasciare la città, Luce era corsa a salutare Crudo, lo sfasciacarrozze. Si era prefissata di chiedergli finalmente il perché di quel soprannome, sperando di scoprire finalmente chissà quale risvolto romantico. Il ragazzo non c'era. A Capodanno si erano baciati, troppo ubriachi per fare l'amore, anche se Luce gli aveva detto di trovarlo piuttosto brutto, di viso e di fisico. Il signor Wong, responsabile dello sfasciacarrozze, disse che Crudo sarebbe tornato dopo l'ora di pranzo. Lei decise che aspettarlo non avrebbe avuto senso.

Il Ninfea era un hotel ben diverso da quello che avevano appena lasciato.
Il numero delle camere non era molto più alto, ma le pretese erano alquanto maggiori. Spinto dagli indicatori del consumo, l'Algoritmo aveva deciso di fondare questo albergo fuori dalla città per permettere ai trasfertisti di avere un'alternativa per riposare comodamente nelle vicinanze dell'area industriale, lungo il tragitto tra la città e la superstazione.
Di giorno l'atmosfera era spettrale ma di notte, illuminata dalle centinaia di luci-guida delle raffinerie, la facciata del Ninfea diventava come un diamante avvolto da freddi lapilli multicolori.
Il nome era stato scelto in seguito ad un concorso tenuto in una serie di scuole elementari cinesi.
Ci sarebbe dovuto essere anche un aggettivo, insieme al nome, ma i bambini non ne avevano trovato uno adeguato; così rimase soltanto "Ninfea".

Un lungo anno passò, con lenta determinazione, fino a che una notte Luce corse a svegliare Diletta.
- Svelta: prendi le tue cose. Andiamo via.
- Luce -cosa, come? Perché andiamo via?
- Se mi vuoi bene, prendi le tue cose. Andiamo via.
Si udirono sbattere delle porte. La luce verdastra del corridoio, facendo capolino sotto alla porta, si accese.
Si tuffarono giù per le scale in un frettoloso sciabattare, ma nessuno sembrava seguirle.
Dopo aver corso a rotta di collo, ripararono in una via secondaria e giunte all'ombra di una ciminiera Diletta trovò finalmente il fiato per chiedere:
- Dove andiamo?
- Non lo so.
Luce tirava su col naso, piangendo.
- Ma dove...come mai stiamo scappando così come, come delle ladre?
Si avvicinò a Luce, che si era abbandonata su un muretto, facendo cadere il suo zaino. Durante la corsa, aveva perso buona parte delle cose con cui aveva cercato di riempirlo. Teneva sempre i calzini sempre bene in ordine nel cassetto, arrotolati a due a due: anche se ne avesse perso qualcuno correndo, non ci sarebbero potuti essere calzini spaiati.