domenica, ottobre 25, 2020

De corporis fabrica

Si guardano nelle orbite prima che lei riprenda a parlare.
Lui, in un riflesso risalente al tempo in cui era ancora vivo, cerca la cannuccia con le labbra che non ha più per trovarla infine con gli incisivi inferiori. Sono molto regolari e puliti. Nel mondo degli scheletri questo può significare almeno tre cose.
Uno: che quel ragazzo fosse molto attento alla propria dentatura, quando era in vita - il figlio di un dentista magari? 
Due: che quei denti, quei fantastici gioielli d'avorio umano, siano finti, portati chissà come dall'aldiquà all'aldilà corrompendo qualche dio della morte annoiato.
Tre: che quel ragazzo provenga da un periodo più avanzato del suo, dal futuro. Un mondo più evoluto, diventato migliore grazie agli sforzi ed agli errori della sua generazione. In fondo, un mondo con una maggiore attenzione all'ortodonzia è, per mancanza di definizioni migliori, un mondo meno primitivo.

Accorgendosi del suo interesse, della chimica che li avvolge, decide di ricacciare nel profondo delle sue paranoie la vergogna per il suo corpo, per la forma delle sue ossa e dei suoi denti, venuta per rovinargli la serata. Il sesso tra scheletri è molto più eccitante di come potrebbe pensare chi abbia ancora della carne a colmare la distanza dalle protuberanze mineralizzate altrui.


Ma questa non è l'unica cosa a turbarla. Non ha ancora incontrato nessuno, quassù, con cui non si riesca a parlare. Come è possibile che tutti si capiscano, come se avessero parlato sempre la stessa lingua anche da vivi? Persone di nazionalità diverse, vissute in epoche diverse, che parlano del più e del meno senza il bisogno di spiegarsi nulla. Il suo timore è che questa infinita festa dopo la vita con gli scheletri di un'eternità che ci provano ubriachi gli uni con gli altri, come una festa di fine riprese, sia una finzione. E non una qualunque, ma una finzione della sua mente: dovunque si trovi il suo cervello ora, teme che le stia tirando qualche brutto scherzo.

Non si riesce a trovare qualcuno con cui parlare di questi pensieri in questo casino, perché tutti pensano soltanto a divertirsi. Si sono preoccupati troppo durante la vita per non godersi una festa da morti. Forse è solo una bugia in buona fede che la sua mente morente le racconta per temporeggiare fino alla fine dell'universo, nella speranza di nasconderle la sua stessa morte fino a quell'inevitabile momento.
Ma se la sua mente avesse davvero questo potere, dovrebbe potrebbe darle anche la tranquillità di godersi questa festa senza porsi domande, o no?
Forse i suoi sono soltanto pensieri antagonisti, tenuti in piedi proprio per dare credibilità al divertimento; quel dubbio che si tramuta in euforia quando le cose finalmente cominciano a prendere la piega che non si osava nemmeno sperare.

"Hip-hop, capita la battuta?"
Lo guarda, accorgendosi solo in quel momento di essersi lasciata trascinare lontano dalla conversazione, seguendo dei pensieri sussurrati da un cervello che non si trova nemmeno più nella sua scatola cranica. E allora dove? Di certo non può nascondersi all'interno delle altre ossa.
E certo che capisce quella battuta, perché non importa se sei nato nel paleolitico o durante la guerra di secessione di uno stato che non esiste più: sotto sotto siamo tutti mucchietti d'ossa.

sabato, ottobre 17, 2020

La paranza delle streghe

Aria salmastra per cambiare aria, cambiamenti che non portano nulla di buono. Se vivi abbastanza a lungo ed hai una buona memoria, finisci per non credere più a nulla. Eppure, le anziane si riferivano alla morte come al momento di massima comprensione. La notte prima di morire, lapidata dai contadini tremanti di un paesino nelle Langhe, la sua madrina le aveva detto che avrebbe visitato la luna quando avrebbe capito. Fu allora che le fu chiaro che anche per le streghe esistevano cose impossibili e che sognavano di farle, o di raggiungerle, una volta che avessero lasciato questo mondo.

"Le regole sono sempre troppe", aveva detto una volta una sua compagna, quando ancora non aveva nemmeno cent'anni, mentre lasciava che un albero le sussurrasse i suoi segreti coprendola di foglie morte. Ora, salendo sulla barca con difficoltà, incerta sotto al peso di tutti i suoi anni, cercava di spiegare alle sue apprendiste che anche in questo c'era un fondo di verità: non c'era modo di aggirare la forza di gravità, di tramutarsi in un gatto per sfuggire alle proprie responsabilità, di diventare invisibile per non dover dire la verità, senza sentire sempre più stretta la regola principale, la regola del dover stare al gioco e vivere, nonostante tutti i trucchi che la magia gli poteva concedere.

Una regola particolarmente odiata era quella di non potersi trasformare in esseri marini, da cui la necessità di spostarsi su quella bagnarola. Per questo, si diceva, tutte le streghe che andavano a Venezia facevano una brutta fine. Specialmente quando era più giovane, aveva spesso ripetuto a se stessa che sarebbe andata a Venezia quando avrebbe capito.
Eppure, adesso che il momento della comprensione si faceva più vicino - perché non è che le streghe vivano per sempre, è solo che spesso muoiono di morte violenta prima del tempo che la natura concede loro - che fosse perché il mondo si faceva sempre più scaltro o perché i suoi giorni stessero davvero per finire, non riusciva più a dirlo con la stessa convinzione.
Avrebbe voluto vedere con i suoi occhi San Marco, le calli, le gondole, i canali pieni di turisti e le piazze piene di piccioni; avrebbe soprattutto voluto vedere tutto questo dal fondo, sdraiata sul fango su cui la città si reggeva, sentendo la pressione di quell'opera insensata sopra di sé mentre i raggi del sole la cercavano inutilmente dall'alto.
Erano nate insieme, lei e quella città, e forse per questo sentiva quell'attrazione farsi sempre più forte col passare del tempo.

Una delle ragazze la chiamò, facendo domande a cui non aveva voglia di rispondere, su argomenti che aveva già trattato mille altre volte. Senza nessuna voglia di adempiere al suo ruolo di madrina si tramutò in gabbiano, sollevandosi sopra alla barca con l'aiuto del vento notturno: avrebbero capito quando avrebbero capito.

domenica, ottobre 11, 2020

Risorse inumane

Ora che sono all'inferno, racconterò le cose come sono andate.

Una mattina arrivai a lavoro e mi dissero che ero morto. Il tizio del personale mi prese per un braccio e mi portò in una sala riunioni. Chiesi di poter parlare con il mio capo e mi rispose che non c'era, doveva ancora arrivare per qualche stupido motivo che non ricordava. In ogni caso, anche se me lo avesse detto, non potrei ricordarlo ora. Ma c'era qualcosa di più importante di cui parlare: la gente moriva. Sai che novità. La sua assistente mi chiese se volessi del caffè e lui la guardò allibito, come se il caffè fosse ormai estinto da secoli. Forse lo avrebbe voluto lui, visto che continuava a deglutire con molta fatica.

Sembrava il discorso tra due adolescenti che si lasciano, ma l'uomo delle risorse umane ci teneva molto a farmi capire che una di quelle risorse fossi proprio io e che non mi avrebbero di certo lasciato al mio destino, avevo pur sempre una famiglia da mantenere e la colpa era loro, non mia. Solo che non dovevo presentarmi al lavoro, né di persona né da remoto. Dovevo sparire, fino a quando non si sarebbe chiarito "che cosa fare" con "noi". Cercò di tranquillizzarmi, anche se ero tranquillissimo, perché si trattava di un loro problema, non mio, e su questo punto era molto sicuro. Pareva fosse una malattia, una malattia curiosamente di entrambi, vivi e morti: la gente non riusciva più a morire, se gli altri non capivano che fossero morti.

Per cercare di spiegarmi meglio vi racconterò di un fatto che, nei giorni seguenti, sconvolse particolarmente l'opinione pubblica: c'era una nota presentatrice che tutte le mattine ospitava una rubrica del buongiorno, bevendo il caffè. Ascolti incredibili, ogni mattina da vent'anni. Eppure, un giorno come un'altro in quelle prime settimane di sommesso stupore mondiale, lei stessa diede la linea al telegiornale per una notizia sconvolgente: era stata recuperata la lista dei passeggeri di un volo privato, precipitato tra le montagne qualche giorno prima. Misteriosamente, doveva esserci stata anche lei a bordo: la scatola nera lo confermava. Fu così che, improvvisamente, milioni di telespettatori si accorsero che la figura che ascoltava contrita quella notizia insieme a loro, relegata in un riquadrino in alto a destra nell'attesa di riavere la linea, non era la donna con cui avevano condiviso i primi minuti della giornata durante gli ultimi vent'anni, ma il suo cadavere.

Non era più la plastica delle sue labbra rifatte a baciare il bordo di quella tazza color tortora con scritto "Bonjour anche a te :) ", ma un informe ammasso di sangue rappreso e cenere. Dopo lo schianto, doveva essere semplicemente ritornata a valle, trascinandosi fino al primo taxi che l'aveva riportata a casa come se niente fosse successo. Fu il terrore generale, ma la cosa più straordinaria è che la notizia fu passata di bocca in bocca e commentata indiscriminatamente tra i vivi ed i morti, ignari della presenza di questi ultimi.

La fine della storia della povera conduttrice è che crollò a terra, stavolta morta per davvero, nel momento in cui il giornalista le restituì, perplesso, la linea: non era rimasto nessuno a credere che fosse viva e l'effetto della magia, bianca od oscura che fosse, svanì senza più darle la possibilità di andare in giro a farsi i fatti suoi.

Quando tornai a casa, dopo la chiacchierata con le risorse umane, avevo tre messaggi in segreteria. Il primo era di mia moglie: sapeva che ero morto ma non riusciva ancora ad elaborare...il lutto o come si chiamasse. Non aveva nessuna intenzione di vedermi, ma c'erano dei wurstel a scongelare nel lavandino, se li volevo. Altrimenti avrei dovuto buttarli, perché tanto erano scaduti. Mi guardai riflesso nello specchio notando solo in quel momento che la mia gola era squarciata. Strano che non ricordassi come fossi morto: forse faceva parte di quell'incantesimo.

Il secondo messaggio era del mio capo. Disse che aveva saputo della mia morte, e anche della sua. Apparentemente era successo mentre andavamo insieme al lavoro: un'incidente d'auto. Questo almeno spiegava perché quella mattina non avessi trovato da nessuna parte le chiavi della macchina. Guardai Pitagora, il mio cane, chiedendogli scusa con gli occhi per avergli dato la colpa di averle trafugate. Il messaggio del capo si concludeva augurandosi di poter superare questa storia aiutandoci a vicenda, continuando a considerarci ancora vivi l'un l'altro. Infine, poco prima di sforare il tempo concesso dalla segreteria, mi chiese se volessimo andare a cena da loro, mercoledì.

Il terzo messaggio era della moglie del mio capo. Mi disse che era morto, sul serio, poco dopo avermi chiamato. Forse aveva smesso di considerarsi un'essere vivente ed aveva lasciato questo mondo. Chissà cosa ne era di me. Non sapeva come fare in un mondo così e le sarebbe piaciuto parlarne, ma non aveva il coraggio di vedermi. Stava piangendo e meditava di farla finita. Magari lo aveva già fatto e ancora non lo sapeva. Concluse dicendo che avrebbe voluto ricordarmi da vivo, ma proprio non ci riusciva.

Lasciai i wurstel al loro destino e decisi di andarmene a dormire. Una buona notte di sonno mi aveva sempre schiarito le idee, vivo o morto che fossi. Mi misi il pigiama ed andai a lavarmi i denti. Fu una vera sorpresa non trovarli più tutti. Molti avevano posizioni nuove, impensabili, per cui faticai un po' a lavarli e rinunciai perfino a passarmi il filo interdentale. Sarebbero dovuti nascere un sacco di prodotti per i morti e i loro bisogni, valeva la pena pensarci. Decisi che il mattino dopo avrei controllato se "Abra Cadaver" fosse un marchio registrato, avrei potuto mettere in piedi un business per colluttori da corpi in decomposizione, anche se forse, nel mio caso specifico, l'alito mi era sempre puzzato.

Sdraiato sul letto, prima di addormentarmi, ripensai a tutte le persone della mia vita: erano cinque e tutte ormai dovevano sapere che fossi morto. Come mai non riuscivo ad andarmene? Pitagora ululò, ammirando la luna fare capolino tra le nubi.

martedì, ottobre 06, 2020

GULP

Bisogna stare attenti ai proclami.
Bisogna stare attenti all'attenzione.
Specialmente durante i periodi di pandemia, con la speranza che questa sia la mia prima-e-unica.
Quando sorge il sole, mi nascondo. Quando sorge la luna, c'è sempre un sole che sorge da qualche parte. Se passi la vita a nasconderti, puoi chiamarla vita?

C'era un foglio incorniciato proprio accanto al frigo. Un occhio attento avrebbe certamente notato la piccola macchia di caffè sul bordo sinistro, verso il magnete delle isole Eolie. Un occhio attento avrebbe notato una macchia di caffè, sulla scorta del bias per cui si considera che un foglio possa essere sporco tutt'al più di caffè, quando si scorge una goccia marrone tingere uno dei suoi bordi.
Invece era sangue, sangue risalente all'ultima volta che il proprietario di quel frigo aveva bevuto sangue umano.

Al culmine dell'estasi, in un momento di lucidità dato dall'improvvisa scomparsa della sete che lo aveva attanagliato fino a quel momento, aveva preso una matita dell'IKEA senza guardarla e si era appuntato una cosa a caratteri cubitali su quel foglio appena lambito dalla pozza di sangue: NON BERRO' PIU' SANGUE UMANO. Poi era andato a casa, senza accorgersi di camminare alla luce del sole. Aveva incorniciato il foglio e lo aveva appeso, cominciando la nuova avventura di vivere come non aveva mai fatto prima. Sorprendentemente ci riuscì, superando rapidamente le iniziali difficoltà, conoscendo persone nuove ed invitandole a casa sua, senza sbranarle; e la gente che avvicinandosi al frigo guardava il foglio incorniciato, leggeva la promessa scritta con quella matita dell'IKEA e faceva un sorriso senza capire.

Sono cresciuto con la convinzione che Halloween fosse una festa non mia, una festa anglosassone, la festa dei vincitori per antonomasia. Il topos dei mostri, che in fondo siamo noi, che in fondo sono una rottura di palle. Ma il tema è la chiave, per non dire che il tema sia il tema: il metodo anglosassone ci insegna che l'unico modo per scovare l'intelligenza sia lasciar fluire la stupidità. Lasciarla libera di correre, di sognare i folletti e di spaventarsi da sola con storie senza un perché. Come sangue cattivo a cui non bisogna restare troppo attaccati, benché ci permetta di vivere. Sorvolerò sulla vecchia storia secondo cui le donne vivano più a lungo per via delle mestruazioni e del conseguente ricambio di sangue; sorvolerò persino sul fatto che le persone in passato si facessero applicare sanguisughe subendo salassi con la convinzione parzialmente fondata di poter stare meglio.

Per cercare di fare una sintesi, ricorderò soltanto che vivere ti uccide e non c'è modo di attaccarsi di più alla vita se non lasciandole un po' di corda, per capire se va al largo o ci resta vicino, come una specie di cane troppo affettuoso che resiste al richiamo del fango dietro la collina. Le cose semplici, le ricorrenze, il topos dei mostri che ci rompe le palle, sono strade maestre percorse da un fiume di persone in cui si vede subito chi cammina con un passo diverso. E chi cammina non lo sa, che il suo passo sia diverso, forse perché è la prima volta che cammina, forse perché vive lontano dal sole ed esce soltanto quando mancano sia lui sia la roccia che gli fa da specchio. La luna: la spiona della notte.

C'è una leggenda che mi sono inventato secondo cui lupi mannari e vampiri un tempo fossero la stessa cosa; poi gli uomini li confusero nel raccontarsi perché gli piacesse - perché li tranquillizzasse - veder splendere la luna nel cielo, anche in quelle notti in cui le capanne crollavano sotto il vento impetuoso e le cose non riuscivano proprio ad andare per il verso giusto.

Ma la gente che guardava quel foglio, aprendo il frigorifero, non aveva bisogno di capire davvero cosa significasse, come non aveva bisogno di capire perché il padrone di casa non facesse riparare la luce del frigo, che non si accendeva quando la porta veniva aperta: ne avrebbe interiorizzato il significato, come un'esclamazione straniera che si legge su un fumetto e si sente subito propria.

domenica, ottobre 04, 2020

Quesmi fantasti

La porta cigolò, greve, come indispettita dall'onere improvviso di dover calcare la scena una volta aperto il sipario. Fu oltrepassata da un passo incerto e breve come la vita: era Tallio, lo scarpino. "Scarpino" non rendeva giustizia agli anni che aveva passato sulla terra, anche se molti dei giorni e molte delle notti che li avevano composti li aveva passati proprio chino sulle suole dei suoi clienti, in un'inversione che adesso - che si trovava dall'altra parte - gli sembrava come una premonizione, un continuo ricordo del fatto che prima o poi tutti finiscano per calpestarti, almeno nelle culture che prevedono la sepoltura.

Non potendo cigolare a sua volta, la fiamma della candela danzò sulla punta dello stoppino, incerta sul suo ruolo in quella faccenda: non era stato lo spostamento d'aria della porta a scuoterla ma un altro vento, che serpeggiava attraverso altre aperture. L'apparizione stava in piedi, perfusa come di un'etere lattiginoso che dava consistenza a tutto ciò che nella vita non aveva posseduto un colore con cui essere visto: il fiato, il calore della pelle, il moto del pensiero e l'anticipazione delle intenzioni; e tutte queste cose insieme, spostando l'interesse dell'etere dall'una all'altra, ne disperdevano l'essenza tra le forme che il corpo aveva avuto, rendendo visibili i contorni di quella tetra apparizione nell'oscurità.

Nonostante fosse possibile vederlo, nulla avrebbe potuto far supporre che si trattasse proprio di Tallio, lo scarpino, se non alle persone che lo avevano conosciuto da vivo; e quelle stesse persone avrebbero di certo avuto parecchie difficoltà a riconoscerlo, non trovando più la fronte corrucciata o il logoro grembiule da scarpino ad incrociare il loro sguardo. Indossava infatti, sotto al sottile sudario che lo impacciava nei movimenti, il vestito della festa: un abito indossato soltanto in poche occasioni private prima di quella che lo avrebbe accompagnato per l'eternità e nulla, se non le sue stesse ammissioni, avrebbero potuto identificarlo per ciò che era stato in vita. 

Si fa spesso troppa fretta a dire che le cose finiscano, come se fossimo noi a deciderne il punto di partenza e quello d'arrivo. Come se le cose non continuassero dopo quella "fine" che distoglie l'attenzione verso altre storie, esattamente come esistevano prima di un "inizio". Certe cose riescono ad essere sè stesse perfino prima di diventarlo e molte si rifiutano di abbandonare le proprie definizioni perfino quando cessano di esistere. Su queste cose, né i vivi né i morti hanno potere di agire, perché ci sono realtà nelle coscienze delle persone dove accadono e non accadono fatti che la realtà condivisa non conosce e non può confutare oppure, più correttamente, non ha nessun interesse a farlo.

Tallio guardò la lista che gli era stata data: era molto lunga e conteneva minuziose istruzioni su chi raggiungere e come ammonirlo. Si domandava come avrebbe fatto a fare l'accento svedese o a fingere di avere o aver avuto dei grossi baffoni, ma una cosa lo tranquillizzava: non aveva mai visto un fantasma prima di guardarsi riflesso nello specchio di quella stanza e si ricordava ancora abbastanza bene di quando era vivo da capire, dopo quella visione, che nessun mortale si sarebbe mai sognato di contraddire un fantasma se questi avesse proclamato di essere il prozio Lennart tornato dall'Ade per redarguire la discendenza sulla gestione del suo patrimonio.

Era arrivato il momento dello specchio, ma non doveva fare molto: anche questa volta doveva solo riflettere.