Erano sorelle.
Per lo meno, questo era quello che pensava ogni persona che le vedesse insieme.
Sorelle nate da madri diverse e padri diversi. Sorelle con diversi fratelli e diverse sorelle.
Il termine sorella doveva aver cambiato significato, almeno per loro.
Sorelle nella sorte: questo sì, di sicuro.
Storditi dalla notte passata affacciati sulla tangenziale, gli avventori che si recavano nella hall del Brolnard Hotel per fare colazione avevano più di un buon motivo, oltre alla fame ed al cattivo riposo, per omettere ogni dettaglio evidente ai sensi - diversi capelli, occhi, carattere e profumo - e chiedersi, a volte perfino ad alta voce, se Luce e Diletta fossero sorelle.
Loro, sorridendo, rispondevano sempre chiedendo se preferissero latte caldo o caffè.
Ma la quiete vita del Brolnard le aveva stufate. Fecero i loro conti e si decisero a chiedere all'Algoritmo un trasferimento comune.
Erano giovani e pronte a vivere la vita così come gli sarebbe arrivata.
Completato ogni test che fu loro sottoposto, rassegnarono ogni ulteriore speranza al fato in attesa di un responso.
Non tardò ad arrivare: furono destinate ad est, nei pressi di una città di crescente importanza. Il bando descriveva l'hotel in cui avrebbero lavorato come "desideroso di farsi un nome". Sembrava il luogo giusto dove mettere a frutto le loro aspirazioni.
Diletta non era troppo convinta dalla destinazione. L'est confliggeva con la sua idea di sicurezza: il clima appiccicoso, l'accento, il tipo di affari che si conduceva in quelle zone. Tutto risuonava in maniera grave e minacciosa, come se si fosse esaminato il suono del futuro dall'imbocco di una buia caverna piena di animali muti e sconosciuti: una cacofonica eco di promesso terrore.
Anche Luce era preoccupata, ma non avrebbe mai permesso di darlo a vedere.
Partirono con l'autobus, salutando con una scrollata di spalle quel luogo di cui presto avrebbero ricordato a malapena il nome. Nel suo continuo rimescolamento, l'Algoritmo non lasciava che le persone si attaccassero troppo ai luoghi, tanto più se questi erano luoghi davvero poco meritevoli di ricevere l'affetto di qualcuno.
Eppure, pensava Diletta incapace di prendere sonno nella sua cuccetta, c'erano delle zone di quel vicinato che avrebbe voluto ricordare. Se non altro, avrebbe di certo conservato quei momenti in cui aveva sentito che vivere significava qualcosa. Immaginava quel significato come un cercare, o meglio un aspettare con pazienza, l'arrivo di qualcosa di sacro. Una sera d'estate, mentre buttava l'immondizia, aveva notato che il basso gracidare dei rospi si era interrotto e, volgendo istintivamente lo sguardo al cielo, aveva ammirato tre aironi volare senza sforzo nel plenilunio.
Prima di lasciare la città, Luce era corsa a salutare Crudo, lo sfasciacarrozze. Si era prefissata di chiedergli finalmente il perché di quel soprannome, sperando di scoprire finalmente chissà quale risvolto romantico. Il ragazzo non c'era. A Capodanno si erano baciati, troppo ubriachi per fare l'amore, anche se Luce gli aveva detto di trovarlo piuttosto brutto, di viso e di fisico. Il signor Wong, responsabile dello sfasciacarrozze, disse che Crudo sarebbe tornato dopo l'ora di pranzo. Lei decise che aspettarlo non avrebbe avuto senso.
Il Ninfea era un hotel ben diverso da quello che avevano appena lasciato.
Il numero delle camere non era molto più alto, ma le pretese erano alquanto maggiori. Spinto dagli indicatori del consumo, l'Algoritmo aveva deciso di fondare questo albergo fuori dalla città per permettere ai trasfertisti di avere un'alternativa per riposare comodamente nelle vicinanze dell'area industriale, lungo il tragitto tra la città e la superstazione.
Di giorno l'atmosfera era spettrale ma di notte, illuminata dalle centinaia di luci-guida delle raffinerie, la facciata del Ninfea diventava come un diamante avvolto da freddi lapilli multicolori.
Il nome era stato scelto in seguito ad un concorso tenuto in una serie di scuole elementari cinesi.
Ci sarebbe dovuto essere anche un aggettivo, insieme al nome, ma i bambini non ne avevano trovato uno adeguato; così rimase soltanto "Ninfea".
Un lungo anno passò, con lenta determinazione, fino a che una notte Luce corse a svegliare Diletta.
- Svelta: prendi le tue cose. Andiamo via.
- Luce -cosa, come? Perché andiamo via?
- Se mi vuoi bene, prendi le tue cose. Andiamo via.
Si udirono sbattere delle porte. La luce verdastra del corridoio, facendo capolino sotto alla porta, si accese.
Si tuffarono giù per le scale in un frettoloso sciabattare, ma nessuno sembrava seguirle.
Dopo aver corso a rotta di collo, ripararono in una via secondaria e giunte all'ombra di una ciminiera Diletta trovò finalmente il fiato per chiedere:
- Dove andiamo?
- Non lo so.
Luce tirava su col naso, piangendo.
- Ma dove...come mai stiamo scappando così come, come delle ladre?
Si avvicinò a Luce, che si era abbandonata su un muretto, facendo cadere il suo zaino. Durante la corsa, aveva perso buona parte delle cose con cui aveva cercato di riempirlo. Teneva sempre i calzini sempre bene in ordine nel cassetto, arrotolati a due a due: anche se ne avesse perso qualcuno correndo, non ci sarebbero potuti essere calzini spaiati.
giovedì, novembre 07, 2019
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