domenica, novembre 24, 2019

Orange country

Aveva appena smesso di piovere.
Lisa guardò le lancette, senza leggerle davvero: qualsiasi ora fosse, mancava ancora troppo tempo al tramonto.
Sarebbe dovuta salire al settimo piano, intervistare la signora Tapperquach, verificare le funzionalità della casa, accertarsi del suo stato di salute ed allora, soltanto allora, avrebbe potuto girare i tacchi e tornare a casa a fare le sue cose.

Le "sue cose" di solito consistevano nel mettere qualcosa di estremamente impegnato alla televisione, per poi andarsene nel resto della casa a fare tutt'altro.
Era una cosa di cui non riusciva a vergognarsi. Perché avrebbe dovuto? Lo schermo era solo un elettrodomestico come un altro, collegato all'Algoritmo come ogni altro, che faceva la sua funzione come tutti gli altri: indipendentemente dalla presenza o meno di un pubblico per la sua esibizione.
Era felice di poter rendere orgoglioso l'Algoritmo: orgoglioso di lei, dell'elevato livello culturale della popolazione che stava così saggiamente guidando, dei valori che insieme andavano edificando, della visione beata del futuro che potevano contemplare dall'alto del loro contributo.
Lisa non credeva di essere un impostore: capiva che qualcuno avrebbe potuto travisarla per tale, ma non sentiva di esserlo. Aveva un sincero interesse per quei temi così elevati; solo non aveva voglia di occuparsene davvero.


Una notifica chiese timidamente: stai ancora ascoltando l'audiolibro "La dottrina dei costumi" di Christian Garve? 
Certo, rispose Lisa, mentre il portinaio la ragguagliava sugli ultimi spostamenti del palazzo: il figlio della signora Tapperquach continuava a non farsi vedere. "Meglio così", fu il suo candido commento.

La porta si aprì a fatica: Terence, il cincillà della signora Tapperquach, aveva fatto cadere in qualche modo l'appendiabiti proprio contro la porta. Doveva essere stato il suo ultimo gesto: Lisa lo trovò riverso poco oltre, morto.
Tappandosi il naso, chiamò a gran voce la vecchia, superando di corsa il piccolo corpo abbandonato contro il tubo freddo del radiatore.
Si levò una voce un tempo squillante, con un singolare accento straniero, come se la demenza della vecchiaia le avesse tolto, insieme alle sue facoltà, anche le proprie origini.
- Sei tu, Fanny?
Al fianco della poltrona su cui era sdraiata c'era una pila di crocchette di riso soffiato, evidentemente depositate a terra per nutrire una pantofola beige che doveva aver confuso con Terence. Lisa era disgustata.
- Mi chiamo Lisa, quante volte devo ripeterlo?
Cambiato canale ed abbassato il volume, si avvicinò alla poltrona della vecchia.
- Deve farsi una doccia signora, alla svelta. Questo posto è un disastro.
- Io...non riesco da sola.
La signora sorrise, come per scusarsi, così Lisa comprese il motivo di quello strano accento: non aveva la dentiera.
- Porca puttana, dove cazzo è finita la dentiera?
Il verbale prevedeva che venisse fatta una foto della dentiera e di altri beni di prima necessità. Aveva tutto l'occorrente nella borsa, tranne la dentiera: troppo specifica, troppo costosa. Non aveva preparato quella borsa con l'esplicito intento di frodare l'Algoritmo e la signora Tapperquach, quanto per risparmiarsi la fatica di trovare tutto quanto in quel casino e nelle altre quindici case sotto la sua responsabilità. Così, semplicemente, avrebbe fatto prima.

Lo schermo di un altro tablet si risvegliò:
Stai ancora guardando il video "Spinoza visto da Karl Marx"?
Certamente.

Corse in cucina, scavalcando pile di vestiti sporchi e scorrendo rapidamente la propria scheda di valutazione sul pad della signora Tapperquach: ottimo, ottimo, sì, assolutamente, molto d'accordo, eccellente, buono, molto buono. La lista dei meriti che Lisa si doveva attribuire era interminabile e questo la scocciava molto: aveva ancora troppo da fare prima di potersi dedicare alle sue cose.

L'orologio cercò invano di distrarla:
Stai ancora ascoltando "Dizionario filosofico, di Voltaire"?
Assolutamente.

Uno dei fornelli era acceso e c'era un uovo spiaccicato a terra, davanti al frigorifero.
Che schifo, pensò, cercando la dentiera tra le posate ammonticchiate nel ripiano sbagliato della lavastoviglie: non era nemmeno laggiù.
Dove poteva essere finita?
La lavatrice, caricata con troppo detersivo, aveva l'oblò coperto di schiuma: impossibile dire cosa ci fosse dentro senza aprirla. Spalancato lo sportello, un odore equivoco di acqua stagnante e lavanda si sparse per la cucina: da quanto tempo era stata fatta, quella lavatrice? Dentro c'era di tutto: prese un forchettone e cominciò ad estrarre i vestiti putridi, gettandoli a terra con stizza ogni volta che questi rivelavano di non nascondere la dentiera.
- Fanny? Che cosa stai facendo?
La signora Tapperquach cercò di chiamarla.
- Resti là signora. Faccio una cosa e arrivo.

Il bagno. Lisa non avrebbe voluto entrarci, ma la dentiera doveva per forza essere là. Pregò di trovarla subito nel bicchiere sotto allo specchio, ma le sue preghiere non furono ascoltate.
Si avvicinò al gabinetto tremando di rabbia: la dentiera era là, incastrata sul fondo, sommersa dal piscio dorato e dai residui marcescenti di carta igienica mista a feci.
Impugnò il forchettone tenendo l'altra mano davanti alla bocca, per impedire ai conati di prendere il sopravvento. Usando il forchettone come una pinza, bloccò la dentiera contro la ceramica, per poi tirare lo sciacquone una, due, tre, cinque volte. Prese un asciugamano ed usandolo come un guanto tirò fuori la dentiera dalla sua prigione. In tutta fretta la depositò nel bicchiere e scattò la foto richiesta, scappando finalmente dal bagno, dall'appartamento della signora Tapperquach e da quello stramaledetto palazzo.

Tanti anni prima, Lisa era stata una bambina graziosa, sensibile e attenta.
Lo era sicuramente ancora, nei riguardi di alcune entità accuratamente selezionate: sé stessa, i suoi cari, cose così.
Giunta alle soglie della vecchiaia, un dottore mandato dall'Algoritmo le annunciò che avrebbe probabilmente perso la vista. Sarebbe diventata una disabile, dipendente dagli altri, senza nessuno che la proteggesse. Lisa non avrebbe mai accettato un simile epilogo: non si sarebbe mai abbandonata alle cure disattente ed egoiste di qualche giovinastro mandato dall'Algoritmo che si sarebbe facilmente approfittato della sua condizione dandole il minimo indispensabile, ingrassando le proprie tasche ed il proprio karma con recensioni mendaci.
No: sarebbe fuggita. Avrebbe abbandonato l'Algoritmo in favore di qualche comunità che ancora desse valore alla condizione umana ed alla solidarietà tra le persone.
Una sua lontana conoscenza aveva fondato proprio una di queste comuni nel deserto.
La intrigava l'idea di vivere in un paesaggio nuovo, alieno, anche se la sua vista in rapido peggioramento non le avrebbe dato modo di ammirarlo. Da piccola, una sera, aveva sognato proprio di sorvolare un deserto: le era sembrato tale e quale ad un campo innevato tinto come d'arancio; l'unica differenza era che non nevicava.

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