domenica, novembre 29, 2020

Tutti i miei circuiti

DISCLAIMER: Non succede spesso che brandelli di storie diverse, come fette irregolari tagliate per pareggiare una sfoglia, si ritrovino per costruire qualcosa insieme. "Non succede spesso" è un'espressione che utilizzo impropriamente omettendo pudicamente  un "a me" che fatico ad utilizzare, perché la proprietà, il riconoscere che un pensiero sia mio, è probabilmente il brandello più difficile da collocare, finendo inevitabilmente per essere tagliato a favore del mistero, dell'immaginazione e della poesia. Tuttavia, ricordando che il ribollire continuo della realtà ci presenta tanto spesso prove reali e prove immaginarie fino al punto da confonderle, non dobbiamo temere per la sorte di quegli avanzi, che sono tali soltanto in modo transitorio: di tutto non si butta via niente.

Gli storici non si sono soffermati abbastanza ad evidenziare le somiglianze tra Samarcanda di Roberto Vecchioni e Nella Notte degli 883. Sicuramente, la ragione sta anche nello scarso interesse che l'uomo moderno prova per tutto ciò che lo riguarda. Una rapida occhiata è più che sufficiente, tanto più che oggi parlare da pari a pari indossando degli occhiali da sole è considerata quasi una cortesia, come se gli specchi dell'anima riflettessero ancora meglio quando nessuno li guarda. 


Era la prima domenica dopo la fine della guerra. Si era combattuto a lungo e malamente, su e giù per tutte le contrade. Le colline della regione, luoghi noti come stanze remote della casa allargata di ciascuno dei popolani, non si erano ancora del tutto liberate dei piccoli roghi e dei saccheggi perpetrati dalle compagnie di ventura in fuga. Chissà poi perché fuggissero: se perché non le avessero pagate abbastanza o perché non le avessero pagate affatto. La città dentro alle mura era cresciuta molto negli ultimi tempi, inglobando i reietti delle campagne in un clima di crescente promiscuità. Erano tempi felici, illuminati, di certo confusi. 

Si alzavano le prime libecciate della stagione ed il soffiare pungente suggerì ai soldati di tramutare le trame delle casacche in fiamme, per riscaldare le membra spossate dei loro amanti. Doveva ancora essere inventata la minestra riscaldata, frutto di una sbandata del secolo successivo, per cui quel calore aveva uno scopo di cura e protezione dal candore tutto animale, tipo asino e bue. 

Forse non vi ho mai raccontato due cose importanti per questo racconto. La prima è che ho visto una cicala con i miei occhi per la prima volta quando avevo ventisette anni; prima, era soltanto un suono. 
La seconda è che una sera, al tempo in cui credevo di essere diventato vecchio, incontrai in cima ad una salita un angelo in monopattino che mi rassicurò dicendo che ero ancora molto giovane. 
La cosa bella di essere uno di quegli illusi che vedono dei segni anche dove non ce ne sono è che a volte i segni ci sono davvero, per lo stesso principio secondo cui anche un orologio rotto segna l'ora giusta due volte al giorno. Ed è l'ora giusta perfino al microsecondo, anzi al suo decimo e meno ancora. Insomma, la perfezione attraverso l'unica forma con cui questa si possa manifestare: il caso. 
Vi racconto queste due cose perché sono collegate tra loro e, pertanto, sono collegate anche a tutto il resto. 

Era davvero un grande libeccio, profumato dall'odore di grigliata e chiodi di garofano, ed il re non riusciva a dormire. Non era mai stato re in tempo di pace e la cosa lo preoccupava molto. Si vedeva già detronizzato, alla gogna, cancellato dai libri di storia. Uscì a fare due passi, camuffato da viandante, cercando conforto nel vernacolo del popolino. Gli ubriachi lo scontravano, gli stupidi cercavano di attaccare briga ed i più chiassosi cercavano in tutti i modi di fregare lui e gli altri che, come lui, andavano per le vie illuminate a festa cercando semplicemente di farsi i fatti propri. 

Il re era ancora turbato, ma si disse che quello era il suo popolo e che soltanto così avrebbe trovato conforto. Altrimenti ci avrebbero pensato la gogna, il patibolo e compagnia cantante. Qualcuno si avvicinò per offrirgli una tazza di vino caldo: bevve avidamente e fu come se gli gettassero una mano calda nel petto. Ancoratasi alla sua gabbia toracica, gli diede una carezza tale al cuore da portarlo a pensare alla sua stanza nelle viscere del castello, alle sue pelli d'orso ed all'inverno che sarebbe infine giunto con le sue bufere di neve a liberare le strade da quei bifolchi. Quanto erano belle, specialmente spolverate di bianchi fiocchi, le strade della sua città! Ma quel qualcuno che gli aveva teso la tazza volle anche due soldi in cambio del vino e la piacevole sensazione svanì in tutta fretta.

Proprio mentre pagava, si accorse di un ragazzo nella folla che lo guardava con insistenza. Che voleva? Si avvicinò, benché il re avesse cercato invano di ripararsi tra i ventagli di sette donzelle che passavano da lì, turbinando tra le viuzze in salita. Nonostante il suo travestimento, il ragazzo doveva averlo riconosciuto.
Avevano combattuto insieme alla Piana dell'Avvelenata. "Combattere" era un'esagerazione: si erano trattenuti per tre giorni in quel posto arido e buio, lucidando le punte delle picche, in attesa di un nemico che non sarebbe mai arrivato, sconfitto in anticipo da qualche cugino arrivista del re. 
Solo una volta quest'ultimo era uscito dalla sua tenda, per prendere giusto una boccata d'aria, e proprio in quell'occasione aveva incrociato lo sguardo con un soldatino, un fante con gli occhi sconvolti ed abbandonati alla provvidenza.
Se ne ricordava anche il re, di quell'incontro: impossibile negare. 

Il giovane spiegò di aver visto una tetra figura inseguirlo per tutta la città, fino in cima alle mura. 
Sbirciando dai caditoi, il ragazzo aveva riconosciuto nella sagoma vestita di nero una signora che...e qui il re lo interruppe: che si trattasse del suo senso di colpa personificato, di una fanciulla che aveva amato e poi scaricato una volta passata la paura della battaglia, fosse anche stata la morte in persona a lui non fregava niente e non erano affari suoi. 
Girò i tacchi, dirigendosi verso una baracca che serviva sidro e frittelle.

Il giovane lo inseguì, sbraitando. Era ubriaco, più di quanto sembrasse. Si avvinghiò al re trascinandolo nel fango mente un tuono spalancava una cascata d'acqua sulla città. Accapigliandosi, i due caddero da un parapetto, demolendo la tenda del venditore di cucchiai, che si era allontanato cercando l'amore sotto al temporale.

Un fulmine illuminò brevemente l'esito della colluttazione: la festa era stata interrotta dalla pioggia e la vita del re da un cucchiaio nel cuore. 
Sic transit gloria mundi. 
Chissà cosa ne avrebbero detto i cronisti, se qualcuno avesse capito che quel viandante sfortunato era proprio lui. I posteri avrebbero saputo solo che era sparito, alla fine della guerra, come un essere benevolo che avesse finito il suo compito: un santo. Frugando nelle sue vesti, il soldato trovò un anello col simbolo reale e mostrandolo agli stallieri li convinse quindi a farsi dare il cavallo più veloce del regno, come se fosse un ordine sovrano, lasciando in tutta fretta quel temporale, quella città, quel cadavere e quella nera signora dietro di sé. 

Qui la storia dovrebbe finire, e invece continua.

La nera signora incontrò un biondo cavalleggero, un bravo ragazzo di buona famiglia, che si offrì di riaccompagnarla a casa. Vissero felici, in campagna, amministrando le ricche proprietà delle rispettive famiglie. Quale che fosse il suo ruolo, quella notte, la nera signora lo perse per acquisire quest'altro. Con la fine dell'aristocrazia, lei ed il suo compare vennero messi sul rogo come il resto della nobiltà dal popolo che, incerto sul trattamento da riservare alle persone del loro lignaggio, gli diede il posto più in alto sulla pira, per garantirgli la vista migliore. 

Il regno fu preso per mano da un cugino del re, un tale che si innamorò delle sue montagne. Le idolatrava, senza parlare d'altro. Finì per essere un buon re soltanto perché l'interesse del popolo coincideva con quello delle sue amate catene montuose. 

Del giovane soldato sappiamo poco o nulla. Una sera d'estate fermò il cavallo ad un bivio dove due volpi giocavano a rincorrersi. Una voce, da dentro una grotta, gli chiese di raggiungere la cima di una torre. Superati torrenti impetuosi e profondi crepacci, arrivò finalmente ad una torre, una qualsiasi. 
La porta era aperta ed egli entrò, senza capire bene cosa significasse. Raggiunta la cima, la sensazione di non capire si fece sempre più forte e sempre più pressante. Perché era salito? Perché non succedeva niente? Scese e trovando il cavallo che lo fissava con il muso nella biada capì di non essere il protagonista di quella storia, proprio come quel cavallo così veloce non era stato che uno dei personaggi della sua. Quella torre era la scena di uno spettacolo che non gli apparteneva ed il giovane ne fu amareggiato: dove era la sua storia? Quando era finita? 

Una fresca brezza gli anticipò la sensazione di fine dell'estate, come se l'autunno fosse ormai imminente. Era più di un presagio: il tempo sembrava come aver fatto un balzo in avanti, negando alla stagione più calda ciò che le spettava ancora da trascorrere. Il cavallo nitrì ed a quel punto il soldato notò una cicala sulla sella. Non emetteva alcun suono, eppure era lì: nonostante tutto, era ancora estate. 

Anche adesso la storia dovrebbe finire e, invece, continua ancora. 

La cicala ritornò nella sua tana, evitando la strada maestra per non incontrare nessuno. Aveva perduto la voce, ma in cambio aveva imparato a scrivere. In ogni caso, la cosa la faceva molto vergognare. A cosa poteva servire, una cicala incapace di cantare? Ripensò al suo amore: una bella cicala che ogni tanto passava nel suo cuore perché, diceva, quello era il luogo più caldo del mondo. 
Sorrise: non era nemmeno sicura che le cicale avessero un cuore, tantomeno che potessero sorridere. Ma adesso che sapeva scrivere capiva che quella era soltanto una parafrasi, un modo di dire una cosa semplice con troppe parole: si amavano. Le scrisse una poesia e fece scendere quel foglio spiegazzato giù, fino in fondo al suo carapace, là dove credeva di trovarla.

Quando poi sei arrivata
in mezzo a tutti i problemi che mi ero fatto 
e hai detto: "certe cose ci stanno bene
certe altre non ci stanno affatto" 
se non sei ancora fuggita 
sarà perché siamo compressi
stretti in un'unica vita
come cimiteri e cipressi.

Che cosa fosse un cipresso o un cimitero non poteva saperlo, eppure la poesia recitava così. Erano solo parole che stavano bene insieme, senza significato, con la stessa naturalezza di due persone che sanno che esiste la morte, ma non gli importa. 

E qui la storia finisce, perché parlare d'amore è un po' come contare i cerchi degli alberi per capire quante stagioni abbiano vissuto: si parte dal centro, ed ogni volta che perdi il conto ricominci da capo.

domenica, ottobre 25, 2020

De corporis fabrica

Si guardano nelle orbite prima che lei riprenda a parlare.
Lui, in un riflesso risalente al tempo in cui era ancora vivo, cerca la cannuccia con le labbra che non ha più per trovarla infine con gli incisivi inferiori. Sono molto regolari e puliti. Nel mondo degli scheletri questo può significare almeno tre cose.
Uno: che quel ragazzo fosse molto attento alla propria dentatura, quando era in vita - il figlio di un dentista magari? 
Due: che quei denti, quei fantastici gioielli d'avorio umano, siano finti, portati chissà come dall'aldiquà all'aldilà corrompendo qualche dio della morte annoiato.
Tre: che quel ragazzo provenga da un periodo più avanzato del suo, dal futuro. Un mondo più evoluto, diventato migliore grazie agli sforzi ed agli errori della sua generazione. In fondo, un mondo con una maggiore attenzione all'ortodonzia è, per mancanza di definizioni migliori, un mondo meno primitivo.

Accorgendosi del suo interesse, della chimica che li avvolge, decide di ricacciare nel profondo delle sue paranoie la vergogna per il suo corpo, per la forma delle sue ossa e dei suoi denti, venuta per rovinargli la serata. Il sesso tra scheletri è molto più eccitante di come potrebbe pensare chi abbia ancora della carne a colmare la distanza dalle protuberanze mineralizzate altrui.


Ma questa non è l'unica cosa a turbarla. Non ha ancora incontrato nessuno, quassù, con cui non si riesca a parlare. Come è possibile che tutti si capiscano, come se avessero parlato sempre la stessa lingua anche da vivi? Persone di nazionalità diverse, vissute in epoche diverse, che parlano del più e del meno senza il bisogno di spiegarsi nulla. Il suo timore è che questa infinita festa dopo la vita con gli scheletri di un'eternità che ci provano ubriachi gli uni con gli altri, come una festa di fine riprese, sia una finzione. E non una qualunque, ma una finzione della sua mente: dovunque si trovi il suo cervello ora, teme che le stia tirando qualche brutto scherzo.

Non si riesce a trovare qualcuno con cui parlare di questi pensieri in questo casino, perché tutti pensano soltanto a divertirsi. Si sono preoccupati troppo durante la vita per non godersi una festa da morti. Forse è solo una bugia in buona fede che la sua mente morente le racconta per temporeggiare fino alla fine dell'universo, nella speranza di nasconderle la sua stessa morte fino a quell'inevitabile momento.
Ma se la sua mente avesse davvero questo potere, dovrebbe potrebbe darle anche la tranquillità di godersi questa festa senza porsi domande, o no?
Forse i suoi sono soltanto pensieri antagonisti, tenuti in piedi proprio per dare credibilità al divertimento; quel dubbio che si tramuta in euforia quando le cose finalmente cominciano a prendere la piega che non si osava nemmeno sperare.

"Hip-hop, capita la battuta?"
Lo guarda, accorgendosi solo in quel momento di essersi lasciata trascinare lontano dalla conversazione, seguendo dei pensieri sussurrati da un cervello che non si trova nemmeno più nella sua scatola cranica. E allora dove? Di certo non può nascondersi all'interno delle altre ossa.
E certo che capisce quella battuta, perché non importa se sei nato nel paleolitico o durante la guerra di secessione di uno stato che non esiste più: sotto sotto siamo tutti mucchietti d'ossa.

sabato, ottobre 17, 2020

La paranza delle streghe

Aria salmastra per cambiare aria, cambiamenti che non portano nulla di buono. Se vivi abbastanza a lungo ed hai una buona memoria, finisci per non credere più a nulla. Eppure, le anziane si riferivano alla morte come al momento di massima comprensione. La notte prima di morire, lapidata dai contadini tremanti di un paesino nelle Langhe, la sua madrina le aveva detto che avrebbe visitato la luna quando avrebbe capito. Fu allora che le fu chiaro che anche per le streghe esistevano cose impossibili e che sognavano di farle, o di raggiungerle, una volta che avessero lasciato questo mondo.

"Le regole sono sempre troppe", aveva detto una volta una sua compagna, quando ancora non aveva nemmeno cent'anni, mentre lasciava che un albero le sussurrasse i suoi segreti coprendola di foglie morte. Ora, salendo sulla barca con difficoltà, incerta sotto al peso di tutti i suoi anni, cercava di spiegare alle sue apprendiste che anche in questo c'era un fondo di verità: non c'era modo di aggirare la forza di gravità, di tramutarsi in un gatto per sfuggire alle proprie responsabilità, di diventare invisibile per non dover dire la verità, senza sentire sempre più stretta la regola principale, la regola del dover stare al gioco e vivere, nonostante tutti i trucchi che la magia gli poteva concedere.

Una regola particolarmente odiata era quella di non potersi trasformare in esseri marini, da cui la necessità di spostarsi su quella bagnarola. Per questo, si diceva, tutte le streghe che andavano a Venezia facevano una brutta fine. Specialmente quando era più giovane, aveva spesso ripetuto a se stessa che sarebbe andata a Venezia quando avrebbe capito.
Eppure, adesso che il momento della comprensione si faceva più vicino - perché non è che le streghe vivano per sempre, è solo che spesso muoiono di morte violenta prima del tempo che la natura concede loro - che fosse perché il mondo si faceva sempre più scaltro o perché i suoi giorni stessero davvero per finire, non riusciva più a dirlo con la stessa convinzione.
Avrebbe voluto vedere con i suoi occhi San Marco, le calli, le gondole, i canali pieni di turisti e le piazze piene di piccioni; avrebbe soprattutto voluto vedere tutto questo dal fondo, sdraiata sul fango su cui la città si reggeva, sentendo la pressione di quell'opera insensata sopra di sé mentre i raggi del sole la cercavano inutilmente dall'alto.
Erano nate insieme, lei e quella città, e forse per questo sentiva quell'attrazione farsi sempre più forte col passare del tempo.

Una delle ragazze la chiamò, facendo domande a cui non aveva voglia di rispondere, su argomenti che aveva già trattato mille altre volte. Senza nessuna voglia di adempiere al suo ruolo di madrina si tramutò in gabbiano, sollevandosi sopra alla barca con l'aiuto del vento notturno: avrebbero capito quando avrebbero capito.

domenica, ottobre 11, 2020

Risorse inumane

Ora che sono all'inferno, racconterò le cose come sono andate.

Una mattina arrivai a lavoro e mi dissero che ero morto. Il tizio del personale mi prese per un braccio e mi portò in una sala riunioni. Chiesi di poter parlare con il mio capo e mi rispose che non c'era, doveva ancora arrivare per qualche stupido motivo che non ricordava. In ogni caso, anche se me lo avesse detto, non potrei ricordarlo ora. Ma c'era qualcosa di più importante di cui parlare: la gente moriva. Sai che novità. La sua assistente mi chiese se volessi del caffè e lui la guardò allibito, come se il caffè fosse ormai estinto da secoli. Forse lo avrebbe voluto lui, visto che continuava a deglutire con molta fatica.

Sembrava il discorso tra due adolescenti che si lasciano, ma l'uomo delle risorse umane ci teneva molto a farmi capire che una di quelle risorse fossi proprio io e che non mi avrebbero di certo lasciato al mio destino, avevo pur sempre una famiglia da mantenere e la colpa era loro, non mia. Solo che non dovevo presentarmi al lavoro, né di persona né da remoto. Dovevo sparire, fino a quando non si sarebbe chiarito "che cosa fare" con "noi". Cercò di tranquillizzarmi, anche se ero tranquillissimo, perché si trattava di un loro problema, non mio, e su questo punto era molto sicuro. Pareva fosse una malattia, una malattia curiosamente di entrambi, vivi e morti: la gente non riusciva più a morire, se gli altri non capivano che fossero morti.

Per cercare di spiegarmi meglio vi racconterò di un fatto che, nei giorni seguenti, sconvolse particolarmente l'opinione pubblica: c'era una nota presentatrice che tutte le mattine ospitava una rubrica del buongiorno, bevendo il caffè. Ascolti incredibili, ogni mattina da vent'anni. Eppure, un giorno come un'altro in quelle prime settimane di sommesso stupore mondiale, lei stessa diede la linea al telegiornale per una notizia sconvolgente: era stata recuperata la lista dei passeggeri di un volo privato, precipitato tra le montagne qualche giorno prima. Misteriosamente, doveva esserci stata anche lei a bordo: la scatola nera lo confermava. Fu così che, improvvisamente, milioni di telespettatori si accorsero che la figura che ascoltava contrita quella notizia insieme a loro, relegata in un riquadrino in alto a destra nell'attesa di riavere la linea, non era la donna con cui avevano condiviso i primi minuti della giornata durante gli ultimi vent'anni, ma il suo cadavere.

Non era più la plastica delle sue labbra rifatte a baciare il bordo di quella tazza color tortora con scritto "Bonjour anche a te :) ", ma un informe ammasso di sangue rappreso e cenere. Dopo lo schianto, doveva essere semplicemente ritornata a valle, trascinandosi fino al primo taxi che l'aveva riportata a casa come se niente fosse successo. Fu il terrore generale, ma la cosa più straordinaria è che la notizia fu passata di bocca in bocca e commentata indiscriminatamente tra i vivi ed i morti, ignari della presenza di questi ultimi.

La fine della storia della povera conduttrice è che crollò a terra, stavolta morta per davvero, nel momento in cui il giornalista le restituì, perplesso, la linea: non era rimasto nessuno a credere che fosse viva e l'effetto della magia, bianca od oscura che fosse, svanì senza più darle la possibilità di andare in giro a farsi i fatti suoi.

Quando tornai a casa, dopo la chiacchierata con le risorse umane, avevo tre messaggi in segreteria. Il primo era di mia moglie: sapeva che ero morto ma non riusciva ancora ad elaborare...il lutto o come si chiamasse. Non aveva nessuna intenzione di vedermi, ma c'erano dei wurstel a scongelare nel lavandino, se li volevo. Altrimenti avrei dovuto buttarli, perché tanto erano scaduti. Mi guardai riflesso nello specchio notando solo in quel momento che la mia gola era squarciata. Strano che non ricordassi come fossi morto: forse faceva parte di quell'incantesimo.

Il secondo messaggio era del mio capo. Disse che aveva saputo della mia morte, e anche della sua. Apparentemente era successo mentre andavamo insieme al lavoro: un'incidente d'auto. Questo almeno spiegava perché quella mattina non avessi trovato da nessuna parte le chiavi della macchina. Guardai Pitagora, il mio cane, chiedendogli scusa con gli occhi per avergli dato la colpa di averle trafugate. Il messaggio del capo si concludeva augurandosi di poter superare questa storia aiutandoci a vicenda, continuando a considerarci ancora vivi l'un l'altro. Infine, poco prima di sforare il tempo concesso dalla segreteria, mi chiese se volessimo andare a cena da loro, mercoledì.

Il terzo messaggio era della moglie del mio capo. Mi disse che era morto, sul serio, poco dopo avermi chiamato. Forse aveva smesso di considerarsi un'essere vivente ed aveva lasciato questo mondo. Chissà cosa ne era di me. Non sapeva come fare in un mondo così e le sarebbe piaciuto parlarne, ma non aveva il coraggio di vedermi. Stava piangendo e meditava di farla finita. Magari lo aveva già fatto e ancora non lo sapeva. Concluse dicendo che avrebbe voluto ricordarmi da vivo, ma proprio non ci riusciva.

Lasciai i wurstel al loro destino e decisi di andarmene a dormire. Una buona notte di sonno mi aveva sempre schiarito le idee, vivo o morto che fossi. Mi misi il pigiama ed andai a lavarmi i denti. Fu una vera sorpresa non trovarli più tutti. Molti avevano posizioni nuove, impensabili, per cui faticai un po' a lavarli e rinunciai perfino a passarmi il filo interdentale. Sarebbero dovuti nascere un sacco di prodotti per i morti e i loro bisogni, valeva la pena pensarci. Decisi che il mattino dopo avrei controllato se "Abra Cadaver" fosse un marchio registrato, avrei potuto mettere in piedi un business per colluttori da corpi in decomposizione, anche se forse, nel mio caso specifico, l'alito mi era sempre puzzato.

Sdraiato sul letto, prima di addormentarmi, ripensai a tutte le persone della mia vita: erano cinque e tutte ormai dovevano sapere che fossi morto. Come mai non riuscivo ad andarmene? Pitagora ululò, ammirando la luna fare capolino tra le nubi.

martedì, ottobre 06, 2020

GULP

Bisogna stare attenti ai proclami.
Bisogna stare attenti all'attenzione.
Specialmente durante i periodi di pandemia, con la speranza che questa sia la mia prima-e-unica.
Quando sorge il sole, mi nascondo. Quando sorge la luna, c'è sempre un sole che sorge da qualche parte. Se passi la vita a nasconderti, puoi chiamarla vita?

C'era un foglio incorniciato proprio accanto al frigo. Un occhio attento avrebbe certamente notato la piccola macchia di caffè sul bordo sinistro, verso il magnete delle isole Eolie. Un occhio attento avrebbe notato una macchia di caffè, sulla scorta del bias per cui si considera che un foglio possa essere sporco tutt'al più di caffè, quando si scorge una goccia marrone tingere uno dei suoi bordi.
Invece era sangue, sangue risalente all'ultima volta che il proprietario di quel frigo aveva bevuto sangue umano.

Al culmine dell'estasi, in un momento di lucidità dato dall'improvvisa scomparsa della sete che lo aveva attanagliato fino a quel momento, aveva preso una matita dell'IKEA senza guardarla e si era appuntato una cosa a caratteri cubitali su quel foglio appena lambito dalla pozza di sangue: NON BERRO' PIU' SANGUE UMANO. Poi era andato a casa, senza accorgersi di camminare alla luce del sole. Aveva incorniciato il foglio e lo aveva appeso, cominciando la nuova avventura di vivere come non aveva mai fatto prima. Sorprendentemente ci riuscì, superando rapidamente le iniziali difficoltà, conoscendo persone nuove ed invitandole a casa sua, senza sbranarle; e la gente che avvicinandosi al frigo guardava il foglio incorniciato, leggeva la promessa scritta con quella matita dell'IKEA e faceva un sorriso senza capire.

Sono cresciuto con la convinzione che Halloween fosse una festa non mia, una festa anglosassone, la festa dei vincitori per antonomasia. Il topos dei mostri, che in fondo siamo noi, che in fondo sono una rottura di palle. Ma il tema è la chiave, per non dire che il tema sia il tema: il metodo anglosassone ci insegna che l'unico modo per scovare l'intelligenza sia lasciar fluire la stupidità. Lasciarla libera di correre, di sognare i folletti e di spaventarsi da sola con storie senza un perché. Come sangue cattivo a cui non bisogna restare troppo attaccati, benché ci permetta di vivere. Sorvolerò sulla vecchia storia secondo cui le donne vivano più a lungo per via delle mestruazioni e del conseguente ricambio di sangue; sorvolerò persino sul fatto che le persone in passato si facessero applicare sanguisughe subendo salassi con la convinzione parzialmente fondata di poter stare meglio.

Per cercare di fare una sintesi, ricorderò soltanto che vivere ti uccide e non c'è modo di attaccarsi di più alla vita se non lasciandole un po' di corda, per capire se va al largo o ci resta vicino, come una specie di cane troppo affettuoso che resiste al richiamo del fango dietro la collina. Le cose semplici, le ricorrenze, il topos dei mostri che ci rompe le palle, sono strade maestre percorse da un fiume di persone in cui si vede subito chi cammina con un passo diverso. E chi cammina non lo sa, che il suo passo sia diverso, forse perché è la prima volta che cammina, forse perché vive lontano dal sole ed esce soltanto quando mancano sia lui sia la roccia che gli fa da specchio. La luna: la spiona della notte.

C'è una leggenda che mi sono inventato secondo cui lupi mannari e vampiri un tempo fossero la stessa cosa; poi gli uomini li confusero nel raccontarsi perché gli piacesse - perché li tranquillizzasse - veder splendere la luna nel cielo, anche in quelle notti in cui le capanne crollavano sotto il vento impetuoso e le cose non riuscivano proprio ad andare per il verso giusto.

Ma la gente che guardava quel foglio, aprendo il frigorifero, non aveva bisogno di capire davvero cosa significasse, come non aveva bisogno di capire perché il padrone di casa non facesse riparare la luce del frigo, che non si accendeva quando la porta veniva aperta: ne avrebbe interiorizzato il significato, come un'esclamazione straniera che si legge su un fumetto e si sente subito propria.

domenica, ottobre 04, 2020

Quesmi fantasti

La porta cigolò, greve, come indispettita dall'onere improvviso di dover calcare la scena una volta aperto il sipario. Fu oltrepassata da un passo incerto e breve come la vita: era Tallio, lo scarpino. "Scarpino" non rendeva giustizia agli anni che aveva passato sulla terra, anche se molti dei giorni e molte delle notti che li avevano composti li aveva passati proprio chino sulle suole dei suoi clienti, in un'inversione che adesso - che si trovava dall'altra parte - gli sembrava come una premonizione, un continuo ricordo del fatto che prima o poi tutti finiscano per calpestarti, almeno nelle culture che prevedono la sepoltura.

Non potendo cigolare a sua volta, la fiamma della candela danzò sulla punta dello stoppino, incerta sul suo ruolo in quella faccenda: non era stato lo spostamento d'aria della porta a scuoterla ma un altro vento, che serpeggiava attraverso altre aperture. L'apparizione stava in piedi, perfusa come di un'etere lattiginoso che dava consistenza a tutto ciò che nella vita non aveva posseduto un colore con cui essere visto: il fiato, il calore della pelle, il moto del pensiero e l'anticipazione delle intenzioni; e tutte queste cose insieme, spostando l'interesse dell'etere dall'una all'altra, ne disperdevano l'essenza tra le forme che il corpo aveva avuto, rendendo visibili i contorni di quella tetra apparizione nell'oscurità.

Nonostante fosse possibile vederlo, nulla avrebbe potuto far supporre che si trattasse proprio di Tallio, lo scarpino, se non alle persone che lo avevano conosciuto da vivo; e quelle stesse persone avrebbero di certo avuto parecchie difficoltà a riconoscerlo, non trovando più la fronte corrucciata o il logoro grembiule da scarpino ad incrociare il loro sguardo. Indossava infatti, sotto al sottile sudario che lo impacciava nei movimenti, il vestito della festa: un abito indossato soltanto in poche occasioni private prima di quella che lo avrebbe accompagnato per l'eternità e nulla, se non le sue stesse ammissioni, avrebbero potuto identificarlo per ciò che era stato in vita. 

Si fa spesso troppa fretta a dire che le cose finiscano, come se fossimo noi a deciderne il punto di partenza e quello d'arrivo. Come se le cose non continuassero dopo quella "fine" che distoglie l'attenzione verso altre storie, esattamente come esistevano prima di un "inizio". Certe cose riescono ad essere sè stesse perfino prima di diventarlo e molte si rifiutano di abbandonare le proprie definizioni perfino quando cessano di esistere. Su queste cose, né i vivi né i morti hanno potere di agire, perché ci sono realtà nelle coscienze delle persone dove accadono e non accadono fatti che la realtà condivisa non conosce e non può confutare oppure, più correttamente, non ha nessun interesse a farlo.

Tallio guardò la lista che gli era stata data: era molto lunga e conteneva minuziose istruzioni su chi raggiungere e come ammonirlo. Si domandava come avrebbe fatto a fare l'accento svedese o a fingere di avere o aver avuto dei grossi baffoni, ma una cosa lo tranquillizzava: non aveva mai visto un fantasma prima di guardarsi riflesso nello specchio di quella stanza e si ricordava ancora abbastanza bene di quando era vivo da capire, dopo quella visione, che nessun mortale si sarebbe mai sognato di contraddire un fantasma se questi avesse proclamato di essere il prozio Lennart tornato dall'Ade per redarguire la discendenza sulla gestione del suo patrimonio.

Era arrivato il momento dello specchio, ma non doveva fare molto: anche questa volta doveva solo riflettere.

martedì, settembre 15, 2020

To greeble a mockingbird

Sono le nove meno un quarto e l'estate non ha ancora deciso quando finire. Ogni tanto gli alieni ci scrivono per sapere cosa faremo, durante le feste. Ci guardiamo, leggendo il messaggio allo stesso tempo, sapendo di non avere troppa voglia di dedicare loro altro spazio.

All'inizio c'era stata una certa euforia: i media, l'attenzione, la curiosità. Ma poi gli alieni sono tornati e non per portarci via con loro. Volevano solo essere nostri ospiti. Scoprire tutto di noi, visitare i luoghi della nostra vita.

Questo ci ha costretti a ripensare alle nostre priorità, alle nostre intenzioni. Ci siamo scoperti molto più umani di quanto avremmo pensato. Adesso, certe volte, mi vengono gli occhi lucidi quando guardo un poster motivazionale, perché il pensiero di potercela fare porta con sé un romanticismo che non riesco più ad abbracciare con lo sguardo.

Dove sono finite le smanie che mi guidavano un tempo? La voglia di avere una cosa per primo, di farla per primo? Ora che riesco a sentire i confini dell'universo mi sembra che qualsiasi insieme sia troppo grande per escludere qualcosa al di fuori di sé. 

Ma gli alieni sarebbero potuti anche essere dei gatti, se solo si fosse trattata di una forma di interazione nuova con loro. Tutto questo sarebbe successo anche se i gatti avessero improvvisamente cominciato a parlare, perché penso che si sentirono così anche le prime persone che addomesticarono i lupi per vivere insieme a loro.

Esiste un'innocenza sostanziale, nascosta tra le pieghe di quello che definiamo normale, di cui alcuni vivono la fatale rottura. Perché una volta che quella cupola si incrina non è una liberazione, ma una prova degna dei più impavidi degli eroi. Dopo la rottura arriva una progettazione tormentata, cui segue un faticoso lavoro edilizio per erigere un nuovo igloo, più grande del precedente, nel tentativo di ricostruire un dentro più grande, sapendo di non poterlo fare tanto grande quanto dovrebbe esserlo; senza più avere fiducia nella differenza tra dentro e fuori.

Solo le persone ci tengono uniti, incapaci di dissolverci, solo le cose che le persone dicono e fanno, solo le cose che sussurrano mentre guardano il cielo, non sapendo cosa contenga agli occhi dell'altro. Perché esisteranno sempre un dentro ed un fuori tra due persone, specialmente tra quelle che si vogliono bene.

martedì, luglio 28, 2020

Gli altri undici


Candela rossa: non si può attraversare, non ancora.
Annusando l'aria, mi accorgo di non farlo mai ed anche adesso, certamente, è solo per posa - per darmi un tono - per non sentirmi stupido nel rispettare gli ordini di una lucina.

I semafori sono uno degli ultimi luoghi delle nostre città ad essere rimasti stupidi. Ci sarebbe il modo di sincronizzarli alla necessità effettiva, al bisogno estemporaneo ed effimero del qui-ed-ora, ma non si fa. L'equilibrio dei tempi tra uomini e macchine è questo e non sarà la nostra generazione a cambiarlo: avremo prima macchine intelligenti di intelligenti attraversamenti.
Questo, intendo questo bisogno di mettere in commercio tante cose per l'acquisto di molti contrapposto alla volontà di produrne poche per l'utilizzo di tutti, significa forse che il cuore del capitalismo batte ancora, forte, nel nucleo frammentato di un occidente che ormai esiste soltanto nei poetici allarmi del giornalismo dei trafiletti, titoli per articoli che non vengono letti nemmeno dai bot che li compilano.

I luoghi stupidi o meglio i luoghi scemi, lo sono in quanto privi di cose da fare. Non rimane allora che osservare sé stessi - pratica pericolosa, sconsigliata, comunque spaventosa nel migliore dei casi - oppure gli altri. Ecco, gli altri. Che individui bizzarri. Sono pieni di cosette inutili, cianfrusaglie che si trascinano dietro nonostante siano sporche e puzzolenti.
Come quella gente che nel 2020 ha ancora un blog, roba da pazzi.
I semafori sono l'occasione per guardarli, magari cercando avidamente due belle gambe in quel mucchio di carne. Ricorda: amare le gambe, ricordarle nei tuoi scritti, non ti rende uno scrittore. Però bisogna notare che tutti gli scrittori, almeno quelli che hanno la pretesa o il bisogno di affrontare i temi dell'eros, scrivono delle gambe. Principalmente, credo che questo accada perché parlare delle tette è considerato infantile e trattare del culo sconveniente, a causa del fatto che lo possiedono sia gli uomini sia le donne. Sì, anche gli uomini hanno le gambe, ma quelle non contano.
Osservare gli altri ti porta a fare considerazioni di questo tipo. In queste occasioni la mente è libera di vagare, curiosa, perché degli altri non ti interessa niente e sei disposto a guardarli come se fossero foglie in attesa di cadere. Così li guardiamo, tutti, i belli e gli storpi, gli avari e i corretti, cullare le loro idiosincrasie come se fossero sacre, come se avessero un valore; mentre per noi sono soltanto un paesaggio, aspettando il verde.

Candela verde: è il momento, puoi attraversare!
Il condizionale del semaforo si manifesta specialmente nella concessione del transito: ti viene data come un'ultima possibilità di rinunciare. A cosa poi?
Mi domando spesso se gli oroscopi abbiano un fondo di verità e la risposta è sempre che la verità degli oroscopi è tutta quella che intendiamo dare loro. Come l'effettiva convenienza degli sconti al supermercato: nel marasma lavico della relatività, conta solo quella che gli attribuisci.
Bisognerebbe leggere gli oroscopi di tutti i segni meno il nostro, cominciando dal Capricorno, ossia da quello che viene letto solo e soltanto dai nati sotto le sue buone stelle, perché tutti gli altri non si sono mai interessati a capire cosa cazzo fosse, un Capricorno.

domenica, luglio 19, 2020

Birdwatching



Di tanto in tanto escono sul balcone con grandi bicchieri d'acqua gelata tra le mani. Spesso la condensa è tale da bagnarle, specialmente quelle di lei, tanto che quando inavvertitamente le posa sul vestito rimangono impresse macchie di umidità, come arcipelaghi visti dallo spazio. Parlano tra loro, a bassa voce, con lo sguardo perso tra le fronde del cedro.

Ieri c'erano amici a cena da noi. Scherzando, hanno chiesto quale fosse il loro appartamento: siamo tutti curiosi allo stesso modo. Anche se qualcuno ha detto che sarebbe stato più giusto definirla invidia, invece di curiosità. Abbiamo mangiato e bevuto senza più rivolgere uno sguardo a quel balcone, un piano più in alto del nostro, come se non fosse il polo della nostra attrazione. 

Oggi sono da solo. Esco sul balcone con un bicchiere: acqua e menta, per distogliermi da questo caldo urbano, rarefatto e senza passione. Faremo installare un condizionatore, appena ce ne sarà il tempo. Vedo soltanto le loro persiane, chiuse. Non possono essere andati via, perché non gli è permesso. Dare i domiciliari alla coppia di chimici che sintetizzava una droga che trasforma in uccelli sembra una forma di contrappasso imperfetta e confusa. Il cedro in mezzo al cortile si inchina, spinto dal calore, come a volerci dividere.

Domani partiremo per le ferie. Ci mancherà lo spettacolo rassicurante dei nostri misteriosi vicini. Non avremo più i loro presunti segreti ad intrattenerci, soltanto la calma serietà delle montagne. Chissà, magari un tempo erano uccelli anche loro.

lunedì, giugno 01, 2020

Sistemi non solari

Alzo la cornetta, scettico. Penso fra me: questa deve essere tutta una farsa.
Il display recita: medico, divorziato, hai un gatto.
Non riesco ad immaginarmi con un gatto e mi chiedo cosa compaia sul display dall'altra parte del filo.

Dietro ho una lunga fila di uomini e donne come me, in attesa di passare il loro tempo appesi a questo telefono dell'anteguerra. Facce stanche, morte di noia. Occhi distratti oltre una misura che nemmeno gli schermi che li illuminano riescono a colmare. Non siamo più abituati a stare in fila ma il bisogno di accedere a questa nuova invenzione è più forte di qualsiasi pretesa di comodità.
Una questione di domanda ed offerta.

Dico: pronto?
Sento respirare, ma non risponde nessuno.
Pronto? Ancora niente.
Riattacco.
Ho ancora qualche minuto, non è possibile che nessuno mi risponda.
E' la settima volta che vengo qui senza che mi risponda nessuno.


C'è una leggenda metropolitana secondo cui l'inventore del telefono interdimensionale, a metà degli anni '90, consegnò la sua invenzione ai governi mondiali con la preghiera di farne un uso migliore del suo. Pochi giorni dopo, prima che quelli capissero cosa avessero ricevuto, il vecchio morì senza lasciare una sola spiegazione della sua invenzione.

Faccio un altro numero.
Stavolta il display mostra: professore, non abiti più in Italia, ti piace pescare.
Davvero, chissà cosa dice di me il display dall'altra parte. Non riesco ad immaginare cosa possa spingerli tutti a non rispondermi niente. Nemmeno un "pronto"; sono un vero cafone.

Passarono lunghi anni durante cui i governi mondiali, in gran segreto, cercarono di capire come trarre un profitto da quel telefono magico che permetteva di parlare con una versione alternativa di sé stessi. Tuttavia, il tempo passava senza che si riuscisse a capire come costruire una fortuna da quella miriade di informazioni. I coriandoli di realtà provenienti dalle altre dimensioni non erano che parti di un tutto già avvenuto, troppo diverso dal nostro per potersi rendere utili nella pratica. 

Ecco. Stavolta non dico niente. Aspetto e parlo per secondo. Almeno "pronto" voglio sentirmelo dire. Ti sento respirare, dannazione. Rispondi.
Rispondi.
Niente. Un altro buco nell'acqua di un'altra dimensione.
Esco dalla cabina per lasciare il posto ad una ragazza col raffreddore.

Finalmente, dopo essersi arresi all'incapacità di capire la teoria alla base del telefono interdimensionale, i potenti della terra si limitarono a replicarlo per installarne tante copie in tutto il mondo e permettere così ad ogni essere umano di misurarsi con le versioni alternative di sé stesso. C'era chi lo definì un "pericoloso benchmark psicologico" e chi disse che "rendeva inutile vivere", ma in definitiva il telefono interdimensionale non cambiò molto la vita degli esseri umani.

Alla fermata dell'autobus incontro di nuovo la ragazza col raffreddore che stava dietro di me nella fila. Guarda nervosamente lo schermo del telefono, confusa.
Ho voglia di fare due parole.
- Ciao, le dico. Cosa raccontano le altre te?
Lei fa spallucce.
- Non lo so, stavolta è stato strano. Di solito venire qua mi serve, mi chiarisce le idee. Sai no?
Faccio un cenno per annuire, come se avessi idea di quello che mi sta raccontando. In questo momento vorrei essere lei.
- Però stavolta è stato molto strano. Sul display c'era scritto solo: "non rovinare tutto". Ho letto quelle parole e non ho più saputo cosa dire. Sono rimasta ferma lì, mentre dall'altra parte continuavo a ripetere pronto? pronto? come un pappagallo isterico. Così ho buttato giù. Secondo te cosa vuol dire?

sabato, gennaio 18, 2020

Lifting

Erano da poco passate le sette: ritornò in camera sentendo ancora una volta quell'odore dolciastro di chiuso e tic-tac, esattamente come quando era entrato per la prima volta, quel pomeriggio. Lo annoiava l'idea di essere stato preso in giro: doveva trattarsi per forza di una stanza per fumatori, anche se aveva chiesto espressamente il contrario.
In fondo, perché arrabbiarsi con quell'albergo di terza categoria? Non ci avrebbe nemmeno dormito, su quel letto color cartone. Bussarono alla porta, che subito aprì facendo entrare le due ragazze che aveva conosciuto quel pomeriggio. Facce già viste in città, con cui però non aveva mai parlato prima.
Quella che gli era sembrata più carina, ora era meno bella; mentre la meno carina, illuminata dalla luce morbida della plafoniera, gli ricordò di un vecchio film: un'attrice di una bellezza passata.
Immaginò, per un breve attimo, di passeggiare con lei, in salita, cercando un tavolo per la loro casa in affitto, con i cappelli calcati sugli occhi per non lasciarsi spettinare dal vento gelato.


- Allora, lo avete portato?
Quella che subito gli era sembrata più carina tirò fuori dalla tasca una bustina trasparente, con dentro una pillola, mentre l'altra guardava fuori dalla finestra.
- È il quarto piano, non hai trovato nient'altro?
Lui si soffiò il naso, prima di rispondere.
- No. Bene, i soldi sono nella giacca. Prendeteli pure.
- Ok, allora noi prendiamo e andiamo.
Guardò meglio la ragazza che subito gli era parsa più bella. Aveva profondi occhi nocciola, che socchiuse cercando la mazzetta di banconote dentro alle tasche. Erano arrossati: troppa polvere.
- No, un attimo. Aspettate che faccia effetto.
Scrollarono entrambe le spalle.
- Ok.
- Ok?
- Ok.
Inghiottì la pillola. Aprirono la finestra e subito entrò una brezza leggera.
Avrebbe voluto ringraziarle, ma non ci riuscì: aveva già cominciato a rimpicciolire. La più carina alzò la maglietta, caduta nei pantaloni e sopra alle scarpe come un sacchetto di plastica, svelando un piccolo pettirosso. Il piumaggio gonfio, lo sguardo fiero ed impaurito allo stesso tempo, le gambe come insetti muti e tremanti. L'uccellino salì sul suo dito. Lei lo accompagnò alla finestra, mentre l'altra lo proteggeva dalle raffiche come la fiamma di un accendino scarico.
- È il momento: salta!
Ma non saltò. Almeno, non subito.

lunedì, gennaio 06, 2020

Goldscope: licenza di eccedere

James si accorse che la lampo dei suoi pantaloni era abbassata un attimo prima che l'Ambasciatore si avvicinasse per presentargli il suo obiettivo, ossia troppo tardi.
Madame Susan Von Chemenate non era soltanto la più ricca ereditiera della sua piccola nazione arroccata sulle gelide montagne del Continente, ma anche - stando al rapporto dell'Agenzia - la mente geniale dietro alla scoperta del segretissimo Siero della Serietà.


- Ambasciatore, è sempre un piacere rivederla, ma questa sera il piacere è doppio, grazie alla sua bella compagna.
- Eh James, vecchio mio, anche se vieni da una delle nostre fottute colonie devo ammettere che sei uno spasso. Ti presento Madame Von Chemenate.

L'Ambasciatore era solito dare del tu alle persone che considerava inferiori e James non faceva eccezione. Aveva ottenuto la posizione di Ambasciatore per i suoi meriti, come mediatore e come leader, ma attribuiva erroneamente il suo successo all'essere un razzista convinto, convinzione che col tempo era stato portato ad accrescere ed esternare in pubblico, senza minimamente scalfire ed anzi migliorando la sua posizione, rafforzando definitivamente le sue teorie. Probabilmente, in una certa misura, l'Ambasciatore aveva ragione.

Il baciamano di James fu impeccabile, come sempre, ma l'attimo di prostrazione lo portò a ripensare a quella lampo rimasta aperta, turbandolo intimamente.
- Cadissimo James, sono mesi che cedco di fade la sua conoscenza. E' un onode avedla qui.

L'ereditiera non aveva un vero difetto di pronuncia: era semplicemente ubriaca. Bastava un niente per mandarla su di giri. Il rapporto dell'Agenzia diceva che questa sua debolezza era la causa che l'aveva portata a studiare il Siero della Serietà. Eppure, non poteva trattarsi di una semplice reazione alla sua condizione. Qualcosa doveva averla indotta a farlo: forse la morte del marito? Difficile a dirsi.

Un cameriere sgattaiolò alle loro spalle durante i convenevoli ma senza sfuggire all'occhio allenato di James: perché non si era avvicinato per offrirgli delle tartine?
Il Maggiore Giorenson si era a lungo dilungato, durante i corsi di addestramento, su cosa significasse essere una buona spia:
- Non crediate che essere una spia significhi cogliere qualcosa in più o meglio degli altri. Spesso si tratta soltanto di avere lo scopo giusto, nel posto giusto, al momento giusto. Questo vale per ogni lavoro e infatti vale anche per lo spionaggio. Noi vi daremo gli scopi da perseguire e vi metteremo nel posto giusto al momento giusto: allora, sarete spie perfette.

Con la scusa di salutare una vecchia conoscenza, James si immerse tra le persone brille e altolocate che popolavano la sala. In realtà, nulla poteva far trasparire la loro effettiva posizione sociale se non la loro stessa presenza a quel ricevimento. Erano facce normali, con normalissime barbe da radere, borse sotto agli occhi, smagliature e labbra rifatte. La fine dell'aristocrazia aveva enormemente complicato le cose. Non era sparita, era solo finita: i giochi erano fatti, le posizioni prese, i titoli assegnati. James era solito pensare che i ricchi fossero ormai stati scelti e che bisognasse rassegnarsi a considerarli tali, da qui all'eternità. I membri di questo popolo eletto avevano già dovuto rialzarsi troppe volte da crociate fallite - crociate fatte per arricchirsi di più, ovviamente - per poter ammettere ulteriori parvenu tra le loro fila che li aiutassero nella risalita. Era il loro beneamato turno di rilassarsi, mettere il pilota automatico e vivere le noiose vite normali che avevano sempre e solo potuto invidiare. Una lunga, meritata, vacanza da tutte le cose brutte che la riccanza aveva sempre dovuto significare: apparente integrità morale, autorità sociale, responsabilità economica ed invidiabile edonismo sfrenato.
Chiudendosi finalmente la lampo, James decise di interrompere quell'annebbiato flusso di pensieri per dedicarsi completamente alla missione.
Si fermò solo un momento, per non destare troppi sospetti nell'inseguimento di quel singolare cameriere, ad ammirare una grande vetrata affacciata sulla notte. Stava nevicando: da qualche parte, oltre quello schermo di fiocchi illuminati dai fari del castello, oltre il buio totale di una luna soffocata da spesse coltri di nubi, dovevano esserci quelle montagne alte e gelate per cui la zona era famosa. Montagne che avrebbero per sempre protetto la nazione, le persone al suo interno e ciò che rappresentavano. Quelle stesse montagne erano, in effetti, la stessa cosa che stavano proteggendo da tempo immemore: lo status quo.

James udì un rumore sospetto e si precipitò nella sala attigua, giusto in tempo per veder sparire il frac del cameriere oltre alla porta seguente. Lo inseguì in un corridoio, quindi in un grande salone addormentato, tra mobili salvaguardati dalla polvere mediante grandi teli, bianchi ed immobili come vallate dopo una lunga nevicata. Il cameriere sembrava distaccarlo sempre più. James fece spazio nella sua mente per concentrarsi sull'obiettivo: raggiungerlo e capire il suo livello di minaccia. L'intera operazione poteva essere compromessa se il suo avversario fosse stato interessato al Siero della Serietà e lo avesse trovato prima di lui. James scese tre rampe di scale ed entrò in un nuovo corridoio, quindi attraverso altre scale fino a raggiungere una vecchia biblioteca.
Le tende erano tirate. Le uniche fonti di luci erano i segnali verdognoli delle uscite di sicurezza, resi obbligatori nella nazione in tutte le stanze contenenti duecento o più libri da una folle ordinanza del 2003. Un consulente dell'Ambasciatore gli aveva in effetti consigliato di far rilegare i libri tra loro, aggirando così la normativa per diminuire il numero di libri ed evitare i lavori.
L'Ambasciatore, forse perché la normativa aveva una valenza di sicurezza, forse perché il consulente era italiano o forse perché aveva idea di quanto costasse far rilegare un libro, non ascoltò il consiglio.

Ah, l'Italia: a James non poteva che scappare un sorriso al suono di quel nome. Che paese meraviglioso ed assurdo, inconcepibile se non fosse esistito, fiorito come un fungo prelibato dal suo stesso marciume come a dimostrare che davvero, nel mondo, ogni cosa fosse possibile. La madre di James era Indiana, ma suo padre era Italiano. Forse, per questo motivo, James pensava che il consiglio del consulente non fosse poi tanto male. Suo padre aveva avuto successo nella terza età dell'oro di Bollywood recitando come il cattivo di una fortunata serie di film di fantascienza ambientati in Antartide, ma erano fatti di molti anni prima: da tempo infatti trascorreva le sue giornate nel Sussex, insieme alla madre di James, bevendo tè nella convinzione che il figlio si occupasse di orologi di lusso.

Il cameriere non poteva essere altrove: la biblioteca non aveva altre porte se non quella da cui era venuto. Una pendola fuori posto attirò la sua attenzione: sembrava nascondere un passaggio segreto e James, dopo averla fatta ulteriormente scorrere contro il muro, decise di entrare. Il passaggio era molto buio e scendeva lentamente a chiocciola con radi gradini. Decise di farsi luce con il telefono, scoprendo così di non avere campo. La batteria era al nove percento. Scese ancora, cautamente, fino a quanto non sentì il passaggio della pendola richiudersi con fragore. Allora risalì correndo, fino a battere con i pugni contro la pendola chiusa ed immobile.
- Urla quanto vuoi, spione - disse il cameriere, ghignando dall'altra parte -  qui non ti sentirà nessuno. Vedrai che bellezza quello che troverai alla fine del passaggio...il Goldscope sarà soltanto mio! AHAHAHAHAHA!

Goldscope? James non riusciva a capire. Si sentì girare la testa. Per la prima volta nella sua lunga carriera sentì di essere spacciato. Non spacciato del tipo che poi le cose si risolvono con un colpo di scena, spacciato del tipo che è meglio mettersi seduti e cercare una via d'uscita con tutto l'ingegno possibile.
Così fece.
Non c'era niente, nel rapporto dell'Agenzia, che accennasse al Goldscope. James sapeva soltanto di dover recuperare il Siero della Serietà, questo era il suo scopo. Non riusciva a capire cosa fosse e cosa signficasse il Goldscope. Forse erano soltanto due nomi diversi per la stessa cosa, forse aveva solo sentito male.
I suoi rudimenti di Italiano si fecero largo nel subconscio fino a tradurre "Gold" con "oro". Goldscope, oroscope. Oroscopo. L'osservazione dell'ora. Poteva essere l'osservazione del subito, l'osservazione dello stato delle cose. L'aderenza ai dati di fatto della realtà. Strano, pensò, che una disciplina tanto screditata dal mondo accademico potesse poggiare su così solide aspirazioni: l'osservazione delle cose reali.
Una persona seria non avrebbe fatto congetture, non avrebbe fatto ipotesi sul futuro ed il suo contenuto, si sarebbe semplicemente attenuta al presente per viverlo. Il goldscope, l'oroscopo, il siero della verità: doveva essere tutto la stessa minestra.
Come avrebbe potuto aiutarlo, quell'informazione?

Decise di provare a scendere ancora, giù per il passaggio segreto, ma sembrava che la discesa non dovesse finire mai. Infine, anche il suo telefono si spense. Non c'era più luce, tanto meno quella delle stelle. Gli mancava l'aria e sentiva sempre più i suoi ragionamenti farsi leggeri, ironici, quasi volutamente stupidi; come incuranti del pericolo che stava correndo.
Si sedette ancora sull'ennesimo gradino: avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per studiare dodici segni nuovi di zecca e divinare l'oroscopo per ciascuno di essi.
Per il suo segno, l'Agente Segreto, avrebbe riservato le più rosee tra le previsioni.